il Giornale, 6 ottobre 2019
L’autogol compie 90 anni
Già il nome, Biagio Zoccola, non garantiva sulla sua affidabilità. Non stupisce quindi che il destino cinico e baro abbia scelto lui, novant’anni fa, come padre degli eroi all’incontrario, il primo a infilare la palla in rete ma dalla parte sbagliata, la madre di tutte le figuracce. L’autogol è dal 6 ottobre 1929 il più comico e il più umiliante degli sbagli, il fuoco amico che ti colpisce alle spalle, il danno che si sposa alla beffa. Biagio, alessandrino di Pietra Marazzi, la faccia da bravo ragazzo e i capelli pettinati, naturalmente, al contrario, giocava half nel Napoli, che una volta traduceva il centrocampista laterale, ed era bravo a giocare a carte e a cacciare fagiani. Voleva entrare nella Storia non pensava però che ci sarebbe riuscito passando dalla porta di servizio. Ma dopo dieci minuti di partita, la prima dell’appena nata serie A mise il ginocchio tra il portiere Favi e una sabongia di Cevenini III, e l’almanacco degli sfigati incise per sempre il suo nome al posto d’onore. Le cronache dell’epoca raccontano che la sera prima, mentre faceva flanella dopo cena con i compagni nella hall dell’hotel si spalancò la porta, e un tipo esagitato fece irruzione sulla soglia, con il revolver in pugno: «Zoccola! Ma io ti ammazzo... non fermatemi che io l’ammazzo senza pietà...». Cercava la moglie, ma per un attimo l’equivoco lo paralizzò, dissero pure che fu lo choc ad entrare in campo con lui il giorno seguente, per questo combinò quel patatrac. Per la cronaca il gol lo regalò alla Juventus. Come Koulibaly il mese scorso.
Da allora la tafazzata, madre di tutte le gogne, ha avuto campioni alla rovescia di inarrivabile autolesionismo: Staf Van den Buys per esempio infilò una tripletta in Anderlecht-Germinal 3-2 tutta alle spalle del suo portiere e Geli Delfi regalò con un «sudden death», quando ancora esisteva la morte improvvisa, la coppa Uefa al Liverpool: peccato solo che lui giocasse con Alaves. Denny Evans segnò il suo per rabbia, all’ultimo minuto, scambiando un fischio che arrivava dagli spalti per quello finale dell’arbitro; Mahamadou Kere il suo lo buttò dentro per rassegnazione dopo che il portiere aveva steso in area un avversario: pensava che l’arbitro concedesse il rigore e invece nemmeno lo aveva visto. O come Frank Sinclair, incubo del Chelsea, capocannoniere del mondo, 25 autoreti lui da solo, un Cristiano Ronaldo riveduto e scorretto.
E se Comunardo Niccolai fece dell’autorete un’arte, una filosofia ribelle, un altro modo di vedere la vita, (raccontava: «Quando la loro squadra non riusciva a segnare i tifosi avversari mi gridavano: Niccolai pensaci tu»), Andres Escobar di harakiri ci morì dopo aver segnato il gol che non doveva per gli Usa. In quattro lo aspettarono in Colombia, davanti a un ristorante «grazie per l’autogol...» gli gridarono scaricandogli addosso dodici colpi di mitraglietta.
L’autogol è la parodia di una catastrofe, il caso che confonde, l’iceberg che affonda il Titanic, otto volte su dieci lo segnano nella ripresa, in genere tra il 61° e il 75° minuto, tredici volte su trentadue è stato decisivo ai mondiali, nove per una vittoria, quattro per un pareggio, quello più importante, dell’uruguaiano Luis Cruz, regalò solo il terzo posto all’Austria, mondiali 1954. Il record però, imbattuto da 17 anni, appartiene al Madagascar: 149 (149-0 il risultato) tra l’Adema, che ha vinto, e l’Emyrne che ha segnato tutti i gol. Centoquarantanove pere infilate nel cestino per protesta contro alcune decisioni dell’arbitro. Senza il Var succedeva.
Sembrano imprese da nerds, da fenomeni parastatali, eppure anche gli dei sono caduti nel ridicolo, anche gli insospettabili sono finiti nella rete fantozziana come un ragionier Filini qualsiasi. Johan Cruyff, il Profeta del gol, il suo lo segnò, immaginifico e terribile come da copione, a tre minuti dalla fine della partita tra il suo Ajax e il Groningen. Ritoccò da artista qual’era il tiro sbilenco di Jans e a tre minuti dalla fine firmò il pareggio per i nemici. Non fu qualsiasi nemmeno il risultato: 5-5.
Banali del resto le maestà del pallone non sono mai, nella buona come nella cattiva sorte. Ronaldo, vanitoso com’è, ovviamente fece di meglio del Profeta. Con un colpo di testa da posizione impossibile su calcio d’angolo regalò cinque anni fa la vittoria al Granada. Nessuno dei suoi avversari sarebbe mai stato in grado nemmeno volendo di segnare un gol così.
È il calcio piazzato che irride il più delle volte la testa coronata, è il tiro da fermo la trappola che ti consegna allo sberleffo. Zidane il suo lo regalò al Parma, uno a uno, sempre su calcio d’angolo. Una svirgolata sul primo palo talmente goffa e improbabile che Daniel Bravo, uno di quelli che giocarono quella partita e francese come Zidane, accusò tutti, senza l’ombra di una prova, di averla combinata. Il calcio d’angolo, per completezza dell’informazione, lo tirò Chiesa papà. Amen.
Kevin Keegan aspettò palcoscenico e opera prima all’altezza del Pallone d’Oro per consegnarsi al manipolo dei Bastardi senza gloria. Olimpico di Roma, qualificazione mondiale, Italia-Inghilterra, punizione di Antognoni. Staccarsi dalla barriera, correndo come un invasato incontro alla fucilata, gli fu fatale. Il secondo gol invece Clemence lo prese da Bettega.
Persino Nureyev Van Basten si incartò su una piroetta e mandò in finale di coppa Italia novantuno la Roma deviando con l’anca una bomba di Carboni da fuori. Un pallonetto beffardo che pietrificò Sebastiano Rossi. Una pennellata, per dire che non aveva solo piedi buoni ma anche anche. Manco a dirlo l’azione era nata da una punizione di Desideri.
Rivaldo, che credeva di averla fatta franca dopo anni di onorata carriera, la zampata la riservò al Cruzeiro che lo accolse come figliol prodigo al ritorno in Patria. Nel festival dell’autoflagellazione, sempre a proposito di Palloni d’oro, c’è anche Luisito Suarez. Cinquant’anni fa giusti segnò alla sua Inter il primo dei due gol della Roma che era allenata da Helenio Herrera, mentre il secondo lo segnò Peirò che però nel frattempo era diventato giallorosso, alla fine non si capì più se aveva vinto la Roma o la Grande Inter.
E giusto a proposito di Grande Inter anche Giacinto Facchetti scivolò sull’autogol anche se lui, al contrario dei suoi colleghi campioni succitati, era difensore non attaccante, per cui normale visto che il recordman italiano è sua Maestà Franco Baresi. Ma le due cose che lo fanno unico è che quel gol alla rovescia lo segnò nella partita sbagliata, l’ultima della sua carriera, contro il Foggia. E che il «Cipe», con il suo irresistibile sorriso mite, la nobilitò come solo un fuoriclasse può fare: «Ci tenevo a chiudere con un gol». Inarrivabile.