Corriere della Sera, 6 ottobre 2019
Pupi Avati prepara un film su Dante
Si avvicina l’anniversario (settecento anni dalla morte di Dante Alighieri, avvenuta a Ravenna nel settembre del 1321), e fra le altre iniziative in preparazione, il «Corriere della Sera» ha lanciato la proposta di istituire il Dantedì, una Giornata celebrativa in onore del poeta da fissare sul calendario («La trovo una proposta assolutamente da condividere. Dedicare una giornata dell’anno a Dante costringerebbe la scuola italiana a occuparsene con impegno e creatività», dice Pupi Avati). L’anniversario potrebbe anche essere l’occasione buona per Pupi Avati di realizzare un progetto che ha in mente da tempo, un film su Dante.
Perché Dante?
«Perché ha saputo sublimare le pene e le ingiustizie patite lasciandoci il poema di più alta poesia che mente umana possa concepire».
Da quanto tempo ha questa passione?
«Alle scuole che ho frequentato debbo insofferenza, noia, diffidenza nei confronti di ogni proposta culturale. Furono solo le arcane illustrazioni di Gustave Doré ad affascinarmi, erano in un grande volume che mia zia Rina mi squadernava sul tavolo di cucina, per potersi appartare con mia madre e confidarle le sue pene d’amore. Fu il malsano godimento suggeritomi da quel visionario dispiego di atrocità (non credo di essere mai andato oltre l’Inferno), a rendere fin da quella mia remota età seducente la Divina Commedia. Ma fu innamoramento che non andò oltre la consapevolezza della fortuna di non essere figlio del Conte Ugolino».
E quale Dante oggi le interessa di più? Il poeta padre della lingua e della poesia italiana? Il poeta d’amore? L’uomo politico?
«La curiosità che finalmente provai nei riguardi dell’autore di quell’opera si sarebbe appalesata solo molti anni dopo quando mi trovai a realizzare, con spirito rosselliniano, Magnificat, un film di ambientazione medievale. Nella sterminata bibliografia alla quale ricorsi per la sceneggiatura mi imbattei nelle cronache di Villani e di Dino Compagni, in quel contesto socio-politico, violentissimo, in cui visse Dante stesso. Incontrai così quel ragazzo che componendo l’incantevole diario che è la Vita Nova, scopre amore e poesia allo stato puro in una condizione di ineffabile creatività. Questo è il primo Dante che vorrei narrare».
C’è il Dante eletto dal Risorgimento come profeta dell’Unità d’Italia. E c’è l’uomo in esilio costretto a vivere lontano dalla sua città, per cui prova nostalgia e odio. Da qui nascono le celebri invettive contro chi lo aveva esiliato, contro i nuovi ricchi corrotti, contro il papa Bonifacio VIII.
«Nel mio racconto, al Dante che con il sodale Guido Cavalcanti in uno scambio poetico “inventa” il dolce stil nuovo si va a sostituire l’Alighieri pieno di spavento alla Battaglia di Campaldino, e via via l’Alighieri assillato dai debiti che si fa politico, riuscendo a ottenere il Priorato, carica che causerà la sua rovina. Condannato all’esilio per baratteria e quindi al rogo, ecco l’Alighieri che implora Arrigo VII di espugnare la sua Firenze definita Idra Pestifera, l’Alighieri perennemente in fuga costretto a chiedere protezione alle varie signorie, l’Alighieri vessato dalla Chiesa nella persona del cardinale Del Poggetto. Il quale, non appagato dall’aver bruciato il De Monarchia nella piazza del mercato di Bologna, pretenderà dai ravennati le ossa del poeta per destinarle allo stesso vilipendio. L’approccio a un personaggio depositario di tutta la cultura del suo tempo, capace di un’opera poetica di illimitata leggibilità, è da far tremare i polsi. Eppure di quello stesso Alighieri non possediamo un manoscritto, nulla di suo pugno».
Nell’immaginario cattolico di tanti suoi film (soprattutto gli horror, a cui lei di recente è tornato) c’è sempre il tema del peccato mortale («Il signor Diavolo», che lei ha tratto dal suo romanzo), dei castighi, dei morti inquieti che tornano, della possibilità di passare nell’aldilà («Zeder»). Figure e immagini che forse non sono così lontane dalle visioni dell’«Inferno».
«Questa idea del male assoluto, come d’altra parte del sommo bene, mi deriva certamente dalle favole contadine, dalla religiosità preconciliare e – perché no? – da quelle illustrazione di Doré delle quali parlavo all’inizio. L’idea di male è ancora associata, malgrado il passare implacabile degli anni, a quella sorta di sacralità che accompagna tutti i miei film gotici “padani”. Sacralità che fa sì che il male si rifletta nel bene e viceversa, che risultino in qualche modo complementari. Temo, e vorrei non crederlo, che il male esprima una seduttività che il bene difficilmente è capace di eguagliare. Credo che la stessa Commedia, monca dell’Inferno, difficilmente avrebbe riscosso il successo che ebbe. Temo che lo stesso Dante ne fosse consapevole e che non l’abbia concepita solo per essere riammesso in Firenze e laureato poeta nel “bel San Giovanni”, non solo per poter incontrare di nuovo Beatrice o per essere vendicato dei tanti torti subiti, ma abbia anche intuito che il “cast” dei suoi protagonisti dei gironi gli avrebbe garantito un successo popolare immediato».
Anche se non è nuovo a film in costume di ambientazione storica, come pensa di ricostruire la vita di un uomo del Trecento?
«Il cinema, contrariamente alla letteratura che lascia spazi all’ immaginazione, è la summa di elementi reali, sullo schermo ben poco è lasciato alla creatività dello spettatore. Non mi spaventa la ricostruzione di quell’epoca mentre mi pongo come traguardo quello di rendere verosimile un essere umano così imperscrutabile. Un essere umano che ha lasciato dietro di sé un’infinità di interrogativi. Ritenere di poterlo affrontare con le mie sole forze sarebbe stata impresa disperata e presuntuosa. A soccorrermi, a indicarmi la sola, unica soluzione per accostarmi a Dante con un film che lo celebri, è intervenuto Giovanni Boccaccio. Una, con Dante e Petrarca, delle tre corone alle quali dobbiamo la nostra lingua. Fu infatti Boccaccio, già cultore e copista dell’opera dantesca, ventinove anni dopo la morte del poeta, a recarsi a Ravenna per consegnare dieci fiorini d’oro alla figlia monacata con il nome di suor Beatrice, per il tanto male fatto dai fiorentini al genitore. Suor Beatrice era rimasta a Ravenna, contrariamente ai suoi fratelli, come custode della tomba del padre. Fu nel corso di quell’incontro che Boccaccio raccolse le prime informazioni sulla sua vicenda umana, che andrà arricchendo conoscendo via via i ravennati del cenacolo dantesco. Estendendo quindi la ricerca fino a comporre quel Trattatello in laude di Dante, la prima biografia di Dante che ci sia pervenuta. Un testo ancora oggi ritenuto fondamentale per la quantità di notizie che ci fornisce sul poeta e la sua tormentatissima vicenda umana, fra le quali come furono ritrovati a otto mesi dalla morte di Dante gli ultimi, fondamentali, canti del Paradiso».
Sulla produzione del suo film su Dante, cosa può dire?
«Risale al 2001 la prima lettera che la Rai redasse impegnandosi a farci produrre la vita di Dante Alighieri. Da allora dietro le stesse scrivanie si sono succeduti funzionari diversi mentre lo stesso progetto su Dante è rimasto fra gli impegni in attesa di sviluppo. Finalmente, ormai alla vigilia di quelli che nel 2021 saranno i settecento anni dalla morte, pare siamo riusciti nell’impresa. In quella selva di papi, imprenditori, sportivi, santi, cantanti, attori, star del web, malavitosi, poliziotti, magistrati, politici narrati fra documentari, film o serie televisive, sembra che finalmente l’italiano più noto al mondo, l’autore dell’opera più tradotta dopo la Bibbia, si sia meritato una biografia cinematografica. Mi piace pensare che oggi venga apprezzata dalla committenza per la qualità dell’impianto narrativo, per la sua cura filologica dovuta al più straordinario gruppo di dantisti che oggi si possa assemblare, e soprattutto che questo film venga realizzato per quel senso di riconoscenza che dobbiamo a chi ha saputo dirci l’essere umano nella sua meravigliosa, commovente, universalità».
Riconoscenza, lei dice. Dunque l’istituzione del Dantedì le piace?
«Sì, dedicare una giornata dell’anno a Dante rappresenta un atto di riconoscenza che gli è dovuto, e un buon modo per mantenere viva la memoria del poeta».