Corriere della Sera, 6 ottobre 2019
Le dieci mafie di Roma
Lunedì scorso è arrivata la condanna del primo «colletto bianco»: un avvocato accusato di essere il riciclatore dei guadagni del «clan Cordaro», che a Tor Bella Monaca – periferia est di Roma – gestisce il traffico di droga. Investimenti giunti fino all’isola sarda de La Maddalena: due ristoranti e una squadra di calcio, business ambito dalle cosche tradizionali. L’avvocato è stato condannato insieme a Salvatore Cordaro e suo genero Valentino Iuliano, i boss che in un altro procedimento rispondono di reati aggravati dal «metodo mafioso» (compreso un omicidio, da cui sono stati assolti in primo grado). Come le rispettive mogli, Paola e Natascia Cordaro, imputate e condannate per lesioni e danneggiamenti. Nella sentenza, la giudice ha riportato intercettazioni e scene degne di Gomorra, descrivendole come «il volto femminile del metodo mafioso», e attribuendo loro il ruolo di «trasmissione di valori tipicamente criminali e mafiosi: il culto del rispetto del capo come obbligo di incondizionata obbedienza, la sete di vendetta a fronte di violazioni dell’ordine imposti dal clan familiare, per restare una élite criminale all’interno del contesto di Tor Bella Monaca».
Il coinvolgimento di un professionista e delle donne negli affari illeciti segnano un salto di qualità delle bande che a Roma ostentano una «forza intimidatrice» assimilata a quella della mafia. E di quei gruppi che, dal 2012 in avanti, sono stati individuati prima dalla Procura e poi dai verdetti dei giudici (dal Riesame ai giudizi di appello, a seconda dei casi) come vere e proprie associazioni mafiose. Piccole, autoctone, ma in grado di condizionare significative porzioni di realtà metropolitana. Se ne possono contare almeno sei, una cifra ragguardevole per la capitale d’Italia dove in passato una simile accusa non veniva ipotizzata quasi mai. E quando lo fu, come nel caso della banda della Magliana, si ebbero esiti contrastanti.
La più famosa è quella che, dopo le assoluzioni in primo grado e le condanne in appello, da mercoledì 16 ottobre affronterà il vaglio della Corte di Cassazione: Mafia capitale, il «mondo di mezzo» di Massimo Carminati partito da una pompa di benzina a Corso Francia (Roma Nord) e approdato in Campidoglio, inquinando importanti settori dell’amministrazione comunale grazie al letale intreccio di intimidazione e corruzione.
Poi ci sono i clan che al traffico di stupefacenti, alle estorsioni e altri reati tipici della malavita hanno aggiunto la capacità di assoggettare e imporre l’omertà grazie al «vincolo associativo» richiesto dall’articolo 416 bis del codice penale. L’associazione mafiosa, appunto. A cominciare da quelli che si sono spartiti Ostia, i Fasciani e gli Spada; per questi ultimi, il 24 settembre sono arrivati tre ergastoli per un duplice omicidio del 2011 che segnò la conquista di una fetta di territorio. Grazie ai rapporti con i Triassi arrivati dalla Sicilia, i gruppi di questo tratto di costa si sono scambiati favori con Cosa nostra.
Il clan dei Casamonica invece – che ha il suo quartier generale tra Porta Furba e la Romanina, sull’asse sud-est della città —, ha stabilito proficui rapporti con pezzi di ‘ndrangheta calabrese. Attualmente ci sono 63 imputati sotto processo, e agli arrestati per mafia la Cassazione ha risposto con una sentenza che ha confermato l’esistenza di elementi «idonei a dimostrare non solo la sussistenza dell’associazione di stampo mafioso, ma anche la partecipazione dei singoli indagati al sodalizio».
Con la stessa accusa sono finiti in carcere, a giugno, i componenti del clan Fragalà, un gruppo di catanesi trapiantati sul litorale sud della capitale, nel triangolo Torvaianica-Pomezia-Ardea. Guidati dal sessantunenne Alessandro e dai nipoti Salvatore e Santo, i Fragalà potevano contare sull’appoggio del palermitano Francesco D’Agati, 83 anni e un lungo trascorso da «padrino» nella mafia di una volta che lui stesso amava ricordare nei discorsi intercettati: Luciano Liggio, i fratelli Alfredo e Pippo Bono, l’alleanza con la camorra di Michele Zaza. D’Agati si muoveva sul continente, tra la capitale e Milano, e raccontava nostalgico: «A Milano non si muoveva una foglia senza il nostro volere, i calabresi lo sai come si inchinavano? Erano sottomessi a noi... non dovevano parlare».
La sesta associazione mafiosa presente a Roma (confermata dalle condanne in appello) è quella dei «napoletani della Tuscolana» agli ordini di Domenico Pagnozzi, 60 anni, detto «Mimì ‘o professore», già legato al boss Michele Senese (anche lui di origini campane) e prima ancora al clan dei Casalesi. Nei vari traffici del suo gruppo è comparso in passato, attraverso un «recupero crediti» da cui nacquero nuove alleanze, anche Franco Gambacurta, chiamato «zio Franco», capo dell’omonimo clan che controlla la zona di Montespaccato, quadrante ovest della città. Sotto processo con 72 coimputati per una lunga serie di reati aggravati dall’aver «commesso il fatto con il metodo mafioso, esercitando sulle vittime una coartazione psicologica con i caratteri tipici derivante dall’appartenenza a una organizzazione criminale».
L’aggravante contestata al gruppo Pizzata-Pelle dedito al traffico di droga – con basi operative sul versante est, tra la Tuscolana e la Casilina – riguarda il favoreggiamento della ‘ndrangheta, cioè la mafia calabrese. Così come per Salvatore Rinzivillo, pregiudicato siciliano di Gela, l’accusa di estorsione è accompagnata da quella di «agevolare l’attività dell’associazione mafiosa denominata Cosa nostra, nella sua articolazione territoriale riconducibile alla famiglia Rinzivillo». Un tempo legata ai Madonia e ai Corleonesi di Totò Riina. Alleanze che l’hanno resa temibile anche dopo che Salvatore ha messo gli occhi sulle attività all’ingrosso del Centro agroalimentare di Guidonia, a sud della capitale. Dov’era conosciuto per essere un pluricondannato «mafioso dalle fondamenta». Con i Rinzivillo (dopo i Cordaro, i Gambacurta e i Pizzata-Pelle), i clan che sfruttano il «metodo mafioso» diventano quattro. E uniti alle sei «associazioni» compongono le dieci mafie di Roma.