Corriere della Sera, 6 ottobre 2019
La politica occidentale in mano ai giudici
Quando la Corte Suprema dell’Inghilterra ha dichiarato illegale la sospensione dei lavori parlamentari (provocata da un decreto del primo ministro firmato dalla regina Elisabetta) molti cittadini del Regno Unito hanno accolto la notizia con soddisfazione. Altri, tuttavia, si sono chiesti se una corte di giustizia, sia pure «suprema» ma istituita soltanto 14 anni fa, avesse il diritto di pronunciarsi sulle decisioni del governo e sul funzionamento della Camera dei Comuni. La Gran Bretagna non ha una costituzione a cui la corte possa appellarsi (come negli Stati Uniti). Ha un parlamento che ha conquistato la sua autorità decapitando un sovrano, e un primo ministro dotato di tutti i poteri che le forze politiche del Paese hanno progressivamente sottratto alla monarchia. In questo particolare quadro una corte che si inserisce con le sue sentenze fra i due maggiori protagonisti della politica nazionale (primo ministro e Camera dei Comuni) finirebbe per sottrarre poteri all’uno e all’atro. Un giornalista americano, Christopher Caldwell, autore di un libro molto discusso sui mutamenti provocati dall’immigrazione in Europa, ha scritto recentemente che Londra ha oggi «una corte politicizzata sul modello americano», una istituzione che potrebbe, prima o dopo, pronunciarsi sulla Brexit e sulle condizioni che dovrebbero regolare l’uscita del Regno dall’Ue. Questa preoccupazione mi sembra giustificata da altre vicende. La progressiva avanzata della giustizia nella gestione degli stati è un fenomeno diffuso, comune a molti Paesi. Ne abbiamo visto una dimostrazione quando la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ingiunto ai seggi elettorali della Florida di interrompere la conta dei voti nelle elezioni del 2000; e ha dato così la vittoria al candidato repubblicano George W. H. Bush contro il democratico Al Gore. Ne abbiamo avuto una prova in Italia nel 2o14 quando una sentenza della Corte Costituzionale, sollecitata dalla Corte di Cassazione, ha dichiarato la incostituzionalità di una legge elettorale che era stata approvata dal Parlamento. E ne avevamo avuto una prova ancora più evidente quando i procuratori di Mani pulite erano divenuti i domini della politica italiana. Craxi non aveva torto quando il 3 luglio 1992, a Montecitorio, sostenne che il problema del finanziamento dei partiti era politico e doveva essere risolto in Parlamento piuttosto che nei tribunali. Questi frequenti interventi della giustizia nella politica in Occidente sono altrettanti segnali della crisi che affligge ormai da parecchi anni la democrazia rappresentativa. Il fenomeno è legato per molti aspetti all’avanzata sovranista di cui siamo testimoni. Quando i parlamenti devono cedere il passo a una qualsiasi piattaforma Rousseau, le democrazie abbandonano nelle mani dei giudici i compiti di cui dovrebbero essere gelosi custodi.