la Repubblica, 6 ottobre 2019
Il Banksy super market
Se tutta l’arte ha valore, che cosa dà valore all’arte? È una domanda che un Vangelo contemporaneo potrebbe porsi davanti agli oltre 11 milioni di euro pagati a un’asta di Sotheby’s, a Londra, per Devolved Parliament, un’enorme tela di Banksy del 2009, raffigurante un Parlamento inglese pieno di scimmie. Siamo davanti al paradosso di un prezzo che toglie valore all’arte. O si potrebbe dire che l’arte sta vendendo la propria anima a caro prezzo. Banksy è il Mefistofele di un mondo dell’arte che è diventato Faust. Ma, se Faust vendeva l’anima in cambio di un’infinita conoscenza, il mondo dell’arte vende la propria anima e la propria conoscenza più prosaicamente in cambio di visibilità e di guadagno. Anche se, probabilmente, sia il sistema dell’arte tradizionale che Banksy fanno a turno a essere una volta Mefistofele e un’altra Faust. Lo dimostra Gross Domestic Product (prodotto interno lordo), il negozio- vetrina aperto a Croydon, a sud di Londra, dalla Primula Rossa dell’arte per mostrare opere e oggetti che poi verranno venduti esclusivamente online. Lo scopo evidentemente è di proteggere il proprio mercato dai falsi. È la prova, questa, che anche al nostro anonimo nemico del selvaggio mercato dell’arte interessino molto il profitto e la difesa del marchio Banksy.
Ma, al di là di un giudizio sull’opera o sul personaggio, il fenomeno obbliga particolarmente mercanti, galleristi e case d’asta a porsi seriamente la domanda: «Dove andremo a finire?». L’arte è andata avanti nel corso della sua storia con quattro ingredienti basilari: bellezza, contenuto, provocazione e idee. Nessuno di questi ingredienti ha mai funzionato da solo. Finora. L’arte classica aveva la bellezza e un contenuto che parlava al pubblico dei suoi tempi. Gli impressionisti univano la provocazione di uno stile nuovo alla bellezza della loro pittura. L’arte del dopoguerra metteva insieme l’idea – il taglio di Fontana, per fare un semplice esempio – alla provocazione. Ma oggi le cose sembrano essere radicalmente cambiate.
Il monumentale dipinto di Banksy con i parlamentari banalmente sostituiti da scimmie sembra essere stato dipinto alla fine dell’Ottocento da un mediocre artista dell’epoca per un polveroso club inglese. Non ha uno stile o un contenuto rivoluzionario, nonostante l’ artista pretenda di esserlo. Non c’è un’idea nuova e anche in termini grafici non è per niente fresco e accattivante come invece lo sono i suoi graffiti. Tuttavia giovedì sera da Sotheby’s c’erano più di dieci persone in sala o al telefono che lo volevano comprare a tutti i costi.
La domanda che allora il mercato dell’arte si pone è: «Che cosa vogliono queste persone?». Limitarsi a credere che si tratti solo di speculazione o investimento è sbagliato. C’è un nuovo pubblico che guarda all’arte o alla non arte in modo diverso. L’arte non è più vista come il frutto di una creatività profonda e geniale davanti alla quale, dopo la prima emozione, subentrano riflessione e sforzo di comprensione. L’opera è vista sempre più come un oggetto di divertimento, un gadget costoso travestito da arte e magari, come nel caso di Banksy, sostenuta da uno pseudo impegno politico o critica alla nostra società. Riuscire a difendere o a promuovere un’opera di Fontana, appunto, davanti alle scimmie di Banksy o ai pupazzetti di KAWS è diventato molto complicato. I nuovi collezionisti – e il loro nuovo denaro – arrivati prepotentemente sul mercato dell’arte non sembrano più intimiditi dalle paroledegli esperti, che disperatamente vogliono dimostrare e convincerli che il taglio sulla tela sia più importante della scimmia. I nuovi compratori si muovono e spendono autonomamente. Influenzati non dalla storia dell’arte, ma dalla comunicazione dei social. Un buco nero su Instagram è meno sexy sicuramente di un palloncino rosso. L’oscurità della conoscenza è rimpiazzata dalla chiarezza, per quanto superficiale, dell’immagine.
Dietro quello che si vede – diceva Warhol – non c’è niente. Ma quello che ci faceva vedere Warhol era qualcosa d’importante sia dal punto di vista del linguaggio visivo che del contenuto. Quello che ci fanno vedere i nuovi simil-Warhol invece è niente: sia davanti che dietro. Ma, in ogni caso, il mercato dell’arte dovrà fare i conti con questo niente che rischia di mettere in crisi il tutto. Anche se bisogna dire che i creatori del nuovo niente sembrano essere molto interessati al vecchio tutto. Brian Donnelly, in arte KAWS, è un avido collezionista: ricicla i soldi guadagnati in opere d’arte di grande qualità.
Mentre Banksy invece, per il momento, ha dichiarato che i guadagni del suo negozio online saranno utilizzati per comprare una nuova nave per i migranti, visto che la Open Arms era stata sequestrata dal governo italiano. Se il mercato dell’arte servisse davvero a riequilibrare un po’ gli squilibri del mondo, allora ben vengano i KAWS e i Banksy. Ma, in questo caso, gallerie, case d’aste, fiere dell’arte e noi tutti critici e curatori dovremmo cambiare i nostri parametri di giudizio. Dietro al niente potremmo scoprire che c’è qualcosa, se non arte, forse il mondo.