La Stampa, 6 ottobre 2019
Contro il voto ai 16 anni
La classe politica del nostro paese è sicuramente campione mondiale del parlare d’altro rispetto alle difficoltà del paese. È bastato un articolo dell’ex-premier Enrico Letta propugnante il voto ai sedicenni che sono fioccate le dichiarazioni entusiaste. La cabina elettorale per gli adolescenti è così diventata per l’espace d’un matin la priorità nazionale, con premier, capi partito e ministri a sbracciarsi a favore dell’ipotesi.
Come ha ricordato anche Mattia Feltri, la proposta è proprio bizzarra. C’è un motivo per il quale non si può fare tutto a qualsiasi età, dipende dal grado di maturazione della persona che in fase di crescita non è ancora in grado di autodeterminarsi con sufficiente consapevolezza. D’altronde, i 18 anni (un età sotto certi profili arbitraria: perché non 19 o 18 e mezzo?) sono un limite anche per proteggere i ragazzi dalle asperità del diritto: non credo si voglia comminare l’ergastolo ad un 16enne per quanto grave sia la sua colpa. A quell’età non si può guidare o comprare alcolici, ma decidere le sorti del paese, invece, non sarebbe un problema.
Inoltre, basterebbe pensare che, salvo un’eccezione, nessun paese europeo, del Nord America, dell’Oceania o dell’Asia democratica (Taiwan, Corea del sud o Giappone) concede il voto ai sedicenni e sopra i 10 milioni di abitanti non ci sono eccezioni. Qui è in gioco il solito eccezionalismo italico: difficile capire se siamo i più geniali, i più furbastri o i più storditi.
Tuttavia, visto che siamo in tema, vale la pena ricordare un’altra idea che si è talvolta affacciata in dibattiti accademici, ma che potrebbe essere degna di considerazione.
Il liberalismo che ha permeato le costituzioni degli attuali stati democratici si basa sull’assunto che l’individuo ha dei diritti (naturali o per contratto poco importa) inviolabili da parte dello Stato. Da qui parte l’evoluzione democratica degli Stati liberali: ciascun cittadino adulto e con sufficienti capacità intellettive, deve poter dire la sua proprio in quanto titolare di diritti. Nessuno nega che bambini o disabili mentali li abbiano ugualmente, solo che non posseggono le sufficienti doti di maturità o intellettuali per partecipare alle elezioni. Per tutto il resto hanno dei tutori e ulteriori protezioni giuridiche (il contratto firmato con un minore è annullabile, ad esempio).
Il problema, presente soprattutto in una società che invecchia, è che i politici tendono ovviamente a compiacere chi vota: gli anziani lo fanno, i minorenni no. Gli effetti sono evidenti in Italia e non solo: si accumula debito pubblico che verrà pagato dalle generazioni successive e si privilegiano le spese per l’esistente (pensioni), piuttosto che quelle per il futuro (investimenti infrastrutturali o istruzione).
Insomma, i bambini sono individui con i medesimi diritti degli altri, sono anzi più tutelati per molti aspetti della loro vita ad eccezione proprio del processo politico che così tanto può influire sul loro futuro? Ecco l’idea di far votare al posto loro i genitori (naturali o adottivi) o i tutori, concedendo a questi ultimi un voto maggiorato. Papà e mamma, peraltro (a prescindere dall’amore che quasi tutti provano per i loro pargoli), hanno anche precisi obblighi giuridici di mantenimento ed educazione della prole i cui effetti positivi saranno a favore di tutti, pure di chi figli non ha.
Un grande giurista americano, Richard Posner, propose perciò di assegnare ½ voto in più per ogni figlio a ciascun genitore: essi già rappresentano i minori in tutto, in giudizio, nei confronti di autorità pubbliche o di privati, perché no in cabina elettorale?
Una provocazione? Forse. Certamente più argomentata dell’insulsa corsa al sedicenne cui assistiamo in questi giorni.