Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2019
Un cervello che riconosce le bufale
Senza un adeguato addestramento del cervello, cioè senza l’educazione di genitori istruiti e della scuola, saremmo tutti creduloni e fanatici. Saremmo prede di false credenze che oggi chiamiamo anche pseudoscienza. Credere cose non vere come miti, superstizioni, magie, cure miracolose, false spiegazioni, o non credere cose vere come l’efficacia dei vaccini, il cambiamento climatico, Xylella come causa della malattia degli ulivi, etc. non è anomalia. È la conseguenza del modo normale di funzionare del cervello. Nel mondo preistorico aiutava a sopravvivere. Oggi è meglio conoscere come stanno i fatti. Solo un’istruzione strutturata e l’allenamento mettono sotto controllo schemi decisionali intuitivi che non portano alla verità, ma alla disinformazione soddisfacente.
Nelle discussioni sui possibili rimedi contro superstizioni e pseudoscienze si dà per scontato che scetticismo e razionalità sarebbero a portata dei cittadini se questi usassero il «pensiero critico». Quasi mai si spiega cosa sia il pensiero critico, lasciando intendere che sarebbe a disposizione di tutti, ma intenzionalmente ignorato. Qualcuno pensa che serva a correggere le distorsioni nella psicologia delle decisioni. Non è proprio così. Serve piuttosto a cambiare l’epistemologia personale, cioè a capire come si produce conoscenza valida e a riconoscerla. Per questa via consente di diventare consapevoli delle trappole rappresentate da euristiche e bias, e si nutre di ragionamento statistico.
L’espressione «pensiero critico» fu usata nel 1910 dal filosofo John Dewey che lo chiamava anche «pensiero riflessivo» una “attiva, persistente e attenta considerazione per qualunque credenza o supposta forma di conoscenza, esaminata alla luce dei suoi fondamenti e delle ulteriori conclusioni a cui tende”. Per Dewey il modello era l’indagine scientifica e in diverse opere difese la tesi che la cittadinanza democratica implica familiarità con il metodo scientifico. Negli anni Trenta numerose scuole americane adottarono il pensiero critico come scopo educativo. Le valutazioni empiriche del suo insegnamento dimostravano, dopo gli anni Sessanta, che migliorava l’alfabetizzazione relativa alla scienza negli studenti delle scuole superiori. Ma gli effetti non furono massicci. Anzi, negli anni Ottanta gli Stati Uniti erano una «nazione a rischio» per il ritardo dell’istruzione. Intanto, la ricerca teorica faceva coincidere il pensiero critico con il metodo del controllo empirico delle ipotesi, che è tipico non solo della scienza ma di qualunque ricerca conoscitiva che proceda usando prove.
Agli inizi del nuovo millennio si capiva che il pensiero critico non può essere insegnato come tale, come se fosse un’abilità, per esempio andare in bicicletta, che una volta appresa può essere applicata in diverse situazioni. Se si dice a uno studente di «esaminare un problema da più punti di vista», imparerà che deve farlo e come in teoria si dovrebbe fare, ma se non ne sa abbastanza del problema non può pensarci da diverse prospettive. Si possono insegnare le regole su come si dovrebbe pensare, ma senza conoscenze di base e una pratica costante, gli studenti non saranno in grado di mettere in atto tali regole. Se questo vale per uno studente, cosa dire della singolare idea di insegnare agli adulti a pensare criticamente?
Il pensiero critico, con le sue caratteristiche di ragionamento astratto e metacognitivo, non si sviluppa spontaneamente. Richiede contesti e l’acquisizione di conoscenze biologicamente secondarie. Gli studi di Jean Piaget e di Deanna Kuhn mostrano che solo dopo l’età di 11-12 anni i ragazzi possono usare il pensiero astratto e capire come stabilire criticamente attraverso prove quale tra due ipotesi è valida, o se sono sbagliate entrambe. Una percentuale elevata di individuo rimarrà comunque ferma a stadi epistemologici pre-critici, malgrado abbia seguito corsi scolastici. Il fatto risaputo è che un’epistemologia pluralista e criticamente valutativa può maturare anche lavorando in ambiti conoscitivi diversi dalla scienza.
La credenza che i bambini sarebbero pensatori critici innati, ovvero scienziati in erba è sbagliata. I bambini non sanno pensare contro-intuitivamente e possono anche imparare nozioni complesse, come il concetto di selezione naturale, ma le dimenticano. Recentemente, a 10mila bambini ugandesi si sono insegnate, usando accorgimenti didattici che veicolano i principi della evidence based medicine, importanti nozioni metodologiche per orientarsi nelle conoscenze di sanità pubblica. La domanda è: quanto a lungo manterranno questi concetti in assenza di un contesto socioculturale e politico-economico adeguato? Il pensiero scientifico non è naturale e i bambini sono spontaneamente essenzialisti e finalisti, quindi restii a riconoscere le cause reali dei fatti. Inoltre, non riescono a non investire emotivamente nella teoria (o credenza), che cercano di difendere in modo strenuo, dalle prove contrarie. Spesso nemmeno gli scienziati riescono mantenere un distacco dalle loro teorie.
Sono stati condotti studi per valutare se e quale tipo di pensiero critico abbia effetti di correzione rispetto alle credenze nel paranormale, nella pseudoscienza o alla suscettibilità verso le disinformazioni. In generale, insegnare ad analizzare riflessivamente i problemi, le fonti e le prove riduce le credenze infondate. L’effetto si osserva anche esponendo gli studenti al solo materiale didattico, e risulta più marcato con gli studenti dei corsi di eccellenza, che hanno già un bagaglio di conoscenze e propensioni critiche verso le disinformazioni, acquisto in famiglia.
Non era previsto che la specie umana inventasse la scienza, che ha portato a società complesse, razionali e innaturali, che sono oasi di relativo benessere circondate da una naturale palude di irrazionalità, sempre pronta a inghiottirle. Gli effetti sociali della scienza si sono fatti sentire dagli ultimi decenni dell’Ottocento quando l’insegnamento del metodo sperimentale e delle teorie scientifiche è entrato nelle scuole e si è progressivamente diffuso orizzontalmente e verticalmente. Il pensiero critico è davvero l’antidoto contro le intossicazioni pseudoscientifiche, ma per usarlo appropriatamente si deve capire la composizione, e come e quando somministrarlo.