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 2019  ottobre 06 Domenica calendario

A casa di Richardson, biografo di Picasso

John Richardson at home. Sono queste le parole che si usano, scritte su un cartoncino, per invitare una persona ad un ricevimento, ad una cena o per un semplice tè nel mondo anglosassone. Vengono di solito seguite dall’ora e dall’indirizzo a cui l’ospite deve recarsi. Questa formula è stata utilizzata dalla Rizzoli New York per intitolare le curiose memorie (ma non è il termine giusto, avrei preferito «informazioni autobiografiche») di Sir John Richardson, morto il 12 marzo scorso a 95 anni. È un libro di dimensioni grandi, con foto a colori di Oberto Gili, Horst e Derry Moore, raffiguranti le molte case in cui visse l’autore nella sua lunga vita. Si inizia a Londra nel 1924 e le pagine vengono redatte sempre dallo stesso Sir John, notevole scrittore e uno dei grandi critici d’arte del Novecento. Il suo capolavoro è la sterminata e brillante biografia di Pablo Picasso, di cui sono stati pubblicati tre grandi volumi,  A life of Picasso (Vol. I, The prodigy  (1881-1906), Random House, New York 1991; Vol. II, The cubist rebel (1907-1916), Random House, New York 1996; Vol. III, The triumphant years (1917-1932), Alfred A. Knopf, New York 2007). Manca il quarto ed ultimo volume, che a quanto sento dire era pressoché finito alla recente scomparsa dell’autore. 
Ho incontrato Richardson in un paio di occasioni ma sempre in modo superficiale. Non era simpatico e portava con prepotenza le rovine di un’antica bellezza. Parlava per essere ascoltato e lo sapeva fare molto bene. Scriveva con grande competenza, sempre con punti di vista personali, perlopiù divertenti e ancor più crudeli. Il suo capolavoro, in cui esprime a pieno questa sua rapace aggressività, è The Sorcerer’s apprentice. Picasso, Provence and Douglas Cooper, pubblicato nel 2000. Nel mio volumetto Persona e maschera (Milano, Archinto, 2014), l’ho recensito un po’ incantato, un po’ sorpreso dalla totale mancanza di affetto, persino di riguardo, che Richardson dimostrava per colui a cui doveva buona parte di ciò che era e col quale aveva trascorso una dozzina d’anni di vita, fra gli anni ’50 e ’60. Incontrai Douglas Cooper verso il 1962 quando mi toccò occuparmi della versione italiana (pubblicata da Feltrinelli) di due suoi volumi molto ben fatti sulle collezioni private di intraprendenti mecenati e sulle collezioni delle grandi famiglie. Cooper era esigente e si recò varie volte a Milano per vedere via via come venivano tradotti e sistemati i suoi libri. Era gentile, ma si capiva bene che era un uomo difficile, puntiglioso, e che non ammetteva di essere contraddetto. Mi invitò a passare un weekend con lui e il suo young friend, rather gifted (come definì Richardson in modo leggermente incomprensibile). Forse feci male a non trascorrere qualche giorno in Provenza nel loro – anzi nel suo, di Cooper – Château de Castille vicino Uzès. Non ci sono mai andato perché per una sorta di premonizione ero certo che non era il caso di farlo. In un’altra occasione molti anni dopo, incontrai Richardson ormai da solo a Firenze. Era ospite di un mio buon amico il quale dopo qualche tempo mi disse che si era un po’ pentito di aver invitato il giovane rather gifted: la domestica si era lamentata delle frequenti macchie di sangue che trovava nel letto. Da parte sua, Douglas Cooper subì più di un’aggressione da amici occasionali conosciuti chissà dove. In una circostanza, pare, l’attacco fu molto violento – armi bianche – e il breve commento di Cooper al giovane algerino fu: «Non penserai di impaurirmi; tu non sei che un dilettante!».
Cooper non piaceva quasi a nessuno, ma stranamente piacque molto all’implacabile Sir John Pope-Hennessy, eccolo dire nella sua autobiografia Learning to Look (1991): «Mi piacevano i suoi vestiti azzardati, il suo umorismo maligno e divertente e ammiravo i suoi scritti. Per quanto sia stato bugiardo nella sua vita privata, come storico dell’arte mirava solo alla verità». I sentimenti che Cooper mi ispirò corrispondevano in parte a queste osservazioni, ma sentivo squillare una sorta di campanello d’allarme ogni volta che lo incontravo, uno sguardo elusivo e inquietante che faceva sorgere, malgrado l’ammirazione per le sue frasi piene di brio e di savoir faire, un richiamo alla prudenza.
In questi suoi ricordi di case e di affetti, Richardson concede molta attenzione ad altre persone che ho conosciuto anch’io, tra cui Geoffrey Bennison e Christopher Gibbs. Ambedue di buona famiglia, il primo lo incontrò in una delle istituzioni in cui studiavano entrambi, la Slade School of Fine Art, trasferita a Oxford ai tempi della guerra. Il secondo lo conobbe quando abitarono negli stessi anni in appartamenti assai eleganti ad Albany, Piccadilly, dove Gibbs, uomo estremamente simpatico e colto, antiquario di genio con alle spalle una famiglia ricca e famosa, ebbe anche lui un appartamento. Nessuno di questi personaggi apparteneva a famiglie sprovvedute di mezzi. Cooper e Richardson erano figli di militari, ma il padre di Richardson lo vide nascere quando aveva già settant’anni. La famiglia di Cooper, australiana, era immensamente ricca ed apparteneva alla upper class inglese, nobili anzi, benché di recente creazione. Un che di malsano guidò la vita di entrambi, sia durante gli anni in cui vissero insieme, sia ognuno di loro per proprio conto. Ambedue erano intelligenti ed originali, ma Cooper aveva il vantaggio di un’educazione storico-artistica molto approfondita a Cambridge, anche se leggermente antiquata a misura che gli anni passavano. Richardson era soprattutto un giornalista, anche se un giornalista particolare, molto originale e con un’ottima formazione professionale. Più che uno storico dell’arte comunque bisognerebbe considerarlo un critico d’arte: sono mestieri vicini ma non identici. 
Come erano le residenze di Richardson? Mai nessuna fu più bella dello Château de Castille in Provenza, una folie settecentesca che sembrava un rendez-vous di colonne che diminuivano in alcuni casi di scala creando un effetto prospettico simile a quello del Borromini nella famosa prospettiva di Palazzo Spada, come lo stesso Douglas aveva osservato. Il luogo era magnifico e in più si ornava delle collezioni di quadri cubisti di Cooper, una delle più importanti del mondo composta solo di capolavori, a cominciare con Picasso, Braque, Léger, Juan Gris e quanti geni volete. Bisogna però ammettere che le ricchezze di Cooper non erano paragonabili ai mezzi del suo amico, relativamente – solo relativamente – modesti. Dopo il decennio trascorso in Provenza l’amore si trasformò in odio e John si traferì per alcuni anni a Londra, come abbiamo accennato, ad Albany, in un set – come si chiamavano quegli appartamenti per lo più composti da un ingresso, due salotti, una stanza da letto, una cucina, una cantina e due stanze per i servitori – in uno dei posti più belli della città. Non era una brutta fine e dal punto di vista dell’arredamento mi sembrava la più ragionevole, anche se non la più ricca; forse, trattenuto nella sua natura un po’ teatrale, dall’eleganza virile del luogo. Poi si trasferì in America, a New York, dove ebbe più di un appartamento lungo gli anni. Il gusto divenne decisamente più ostentato, adatto ai parties in cui impera più la moda che l’arte, se mi si consente una malignità degna del nostro protagonista: molte tende, molti fiori, molte maschere, molto chintz, troppi gessi e calchi di ritratti imperiali e soprattutto molti cuscini. E persino un leopardo imbalsamato, pronto a saltare dall’alto di un arazzo. Non più Picasso come Re Sole della compagnia, ma personaggi più vicini alla mondanità e al design. Comunque la salvezza veniva data dai molti disegni dei grandi pittori che aveva conosciuto con Cooper e che continuò ad investigare per proprio conto, finendo con quel vero e proprio capolavoro che è la Vita di Picasso. Come arredatore è soprattutto vicino allo straordinario architetto neoclassico Sir John Soane: ogni centimetro di ogni stanza doveva appartenere a qualche oggetto, grande o piccolo che fosse. Una vera e propria ansia guidata dall’horror vacui, abbagliante, talvolta, per lo più overwhelming.