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 2019  ottobre 04 Venerdì calendario

Vittorio Storaro ricorda Bernardo Bertolucci

Hanno condiviso venticinque anni di luci e ombre, colori e sentimenti: Vittorio Storaro è il custode della memoria cinematografica di Bernardo Bertolucci. Parma, capitale della cultura nel 2020, gli ha affidato una mostra con le immagini di nove film, un libro fotografico e tre masterclass legate ad altrettanti periodi visivi: la luce, i colori, gli elementi. Ma il cuore del progetto (patrocinato da CICT-Unesco e realizzato da Tecnoitalia) è la conservazione delle opere del maestro scomparso dieci mesi fa: ogni film restaurato viene trasferito su un moderno supporto digitale (DOTS), capace di conservarne l’integrità per secoli.
«Bernardo voleva che le sue creazioni abitassero a Parma».
Raccontando di Bertolucci, Vittorio Storaro, celebre direttore della fotografia, si immerge in un mondo che, si capisce, ha visitato e visita ancora spesso.
Il primo incontro?
«Sono figlio di un proiezionista della Lux, a dodici anni già studiavo fotografia e lavoravo, professionalmente sono cresciuto in fretta ma a vent’anni restai fermo per due anni. Il mio amico Camillo Bazzoni mi disse: "Basta stare in casa, vieni a Parma con noi a fare un film con un giovane interessante". Significava tornare a fare l’assistente ma accettai con umiltà. Quel giovane era Bernardo Bertolucci».
Che impressione le fece?
«Aveva 22 anni, uno meno di me.
Scriveva con la macchina da presa, disegnava nella sua mente un’inquadratura e poi chiamava il macchinista. In certi giorni, se per caso non trovava l’idea, si fermava.
Il set di Prima della rivoluzione fu uno choc. Dopo quel film girai con altri registi, un giorno arrivò una telefonata, la voce calda e la erre arrotondata: "Vittorio ti ricordi di me? Sono Bernardo". Certo che mi ricordo, risposi, ti sogno. Mi raccontò che aveva avuto un periodo difficile, era stato in analisi, certi film che lui aveva fatto non erano stati compresi, erano passati sette anni. "Sto ricominciando, giro per la tv, Strategia del ragno ". Da lì sono partiti 25 anni di collaborazione, fino a Il piccolo Buddha ».
"Strategia del ragno" fu un set in stato di grazia.
«Eravamo giovani. Bernardo mi fece vedere un libro di Magritte, "vorrei un’atmosfera come questo tipo di dipinto". Io la trovavo una cosa complessa. Proposi i pittori naif primitivi di cui mi ero innamorato girando un film in Jugoslavia: dipingevano nell’inverno sui vetri delle case, quelle immagini avevano un’aggressività cromatica che per me, cresciuto nella periferia grigia di Roma, era dirompente. In Italia scoprii che c’era Ligabue, proprio vicino Parma. A Bernardo piacque l’idea di raccontare L’eroe e il traditore di Borges come una messa in scena, usando Tara/Sabbioneta come un teatro.
Giravamo solo all’imbrunire, quando la luce era blu. Di giorno preparavamo le inquadrature e poi ci scatenavamo dalle 18 alle 19. È una cosa che si può fare solo a una certa età».
"Il conformista" è arrivato subito dopo.
«Sì. Non mi arrivò mai la Mitchell piccola ordinata dagli Usa, girammo con una macchinetta per documentari, quando lo racconto in America non ci credono. Il suono non fu in presa diretta – attori di nazionalità diversa – ma c’era grande fantasia nella visione. Ad esempio l’appartamento di Stefania Sandrelli. Bernardo e lo scenografo Scarfiotti pensavano di mettere fuori dalle finestre dipinti e foto, un orizzonte finto, perché il fascismo non aveva all’epoca una struttura reale e si presentava in immagini. Ma non si poteva perché il marciapiede era piccolo. Ebbi l’idea delle tapparelle che ingabbiassero il film tra luci e ombre».
Avevate coraggio.
«Ogni cosa che scoprivamo la mettevamo, senza paura di sbagliare. Al New York Film Festival Coppola chiese una copia di Il conformista da 16 mm da proiettarsi a casa. Lo fece vedere a Gordon Willis, il direttore della fotografia e alla troupe e disse: questo è lo stile che vorrei per Il padrino ».
Ancora Parigi, Ultimo Tango.
«Un anno dopo, mentre lavoravo con Giuseppe Patroni Griffi, mi chiamò Bernardo per Ultimo tango .
Facendo i sopralluoghi, scelsi l’arancio perché guardavo alla luce artificiale, una città sempre accesa, diversa dall’azzurro de Il conformista . Bernardo vide una mostra di Bacon, "ci sono dipinti che sembrano il manifesto del nostro film". È stato un momento di grande tensione creativa. In molti ci sconsigliavano Brando, ma con noi fu fantastico. Il primo giorno Bernardo dice "andiamo a salutare Marlon". Arriviamo e vedo Brando con un colore magenta in faccia.
Sussurro a Bernardo: mio dio, è truccato in modo orrendo, sembra che abbia due dita di cerone. E lui: "Vittorio stai calmo, è il primo giorno". Vado dal truccatore americano, mi racconta che sul set di L’ammutinamento del Bounty avevano fatto notare al divo che la sua faccia era la più scura di tutte e lui aveva risposto "ritruccate loro".
Mi faccio coraggio: "Brando, capisco che lei con le potenti luci hollywoodiane abbia bisogno di tono ma qui a Parigi il cielo è nuvoloso e io ho una padellina di luce...". Prende un tovagliolo bianco e se lo toglie: "Va bene così?"».
Poi arriva "Novecento".
«La summa simbolica dei tre primi film fatti insieme. L’idea che io seguii sul piano figurativo fu di mettere in sintonia la vita degli uomini con le stagioni della natura. E così aspettavamo i periodi giusti per girare, senza fretta né pressione. Il successo di Ultimo tango aveva regalato a Bernardo il senso di immortalità, di poter fare qualunque cosa. Lessi il copione e dissi: le scene sono lunghe, questo film durerà cinque ore. E Bernardo: "Spero che sia così bello che non ce lo tocchino". Aveva sofferto nel periodo in cui non gli facevano fare film. Ma per Novecento ebbe carta bianca: e d’istinto disse "faccio tutto"».