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 2019  ottobre 04 Venerdì calendario

I 70 anni di Antonello Cuccureddu

In tempi in cui le frontiere italiane del pallone erano rigorosamente chiuse, bastava un nome un po’ esotico per accendere la fantasia dei tifosi. Antonello Cuccureddu, con quel cognome atipico, poteva essere un basco e invece è un sardo di Alghero, terra comunque catalana. Un cognome che evocava uccelli o montagne, ma che per il popolo bianconero è soprattutto sinonimo di una delle stagioni più felici, quella che portò la Juve a gettare le basi dello squadrone che dominò il calcio con Trapattoni al comando. E Cuccureddu, che oggi festeggia 70 anni, in quella Juve era tutto, nel senso che partì mezzala per diventare terzino, mediano, ala, insomma per giocare dove c’era bisogno. Dodici anni e 438 partite nella Juve, che poi vogliono dire sei scudetti e una coppa Uefa, per quello che può essere considerato il primo colpo dell’era Boniperti, nominato ad nel novembre del ’69, appena in tempo per prendere Cuccu dal Brescia nel mercato autunnale.
«Probabilmente sì, fui il suo primo acquisto. E dopo di me arrivarono Gentile, Spinosi, Capello, Causio, Bettega Io e Furino eravamo i più giovani di quella Juve in cui c’erano ancora Salvadore, Del Sol, Castano, Leoncini, Haller, insomma tutti quelli che erano stati per anni le mie figurine. Quando sono arrivato a Torino pensavo di sognare, mi ricordo che ero così emozionato che mi vergognavo ad entrare in quello spogliatoio, a mettere quella maglia, a vedere dal vivo quei campioni. Ma sa, avevo diciotto anni».
Il suo debutto fu incredibile.
«Sì, proprio a Cagliari, nella mia Sardegna. Contro il grande Cagliari di Riva che era in testa alla classifica e avrebbe vinto lo scudetto, mentre la Juve era in un momento difficile, aveva appena cambiato allenatore, mandarono via Carniglia e affidarono la squadra a Rabitti. Mi fece giocare da mezzala e a 3 minuti dalla fine segnai il gol del pari».
Insomma, il sogno continuava Ma qual è stata la sua partita indimenticabile?
«Beh, la prima di sicuro. Però anche quella del gol scudetto nel ’73. Giocavamo con la Roma all’Olimpico e il Milan stava perdendo a Verona: anche noi eravamo sotto, ma Altafini pareggiò e poi io segnai il gol del 2-1».
E quella da dimenticare?
«La finale di coppa Campioni a Belgrado, contro l’Ajax. Una partita che purtroppo io nemmeno giocai perché avevano fatto delle scelte tattiche che poi si dimostrarono un errore».
Qual è l’allenatore a cui deve di più?
«Rabitti me lo ricordo come un padre. Parola e Vycpalek mi hanno fatto crescere molto. Poi, certo, Trapattoni. Era più giovane rispetto agli altri e ti faceva sentire più a tuo agio, era uno con cui si parlava tanto. Ecco, tutti i giocatori, anche adesso, avrebbero bisogno di un allenatore così, uno con cui si aveva sempre un buon rapporto».
Con Bearzot, invece, una stagione a due facce. Protagonista in Argentina nel ’78, fuori dal giro azzurro nell’82
«Sì, forse dopo il ’78 avevano deciso di tenere in Nazionale i più giovani. E poi io ero passato dalla Juve alla Fiorentina e nell’82 avevo anche avuto un infortunio. Anche se penso di aver fatto le mie stagioni migliori a 30-31 anni».
Secondo molti la Nazionale del ’78 era addirittura più forte dei quella mondiale dell’82.
«Dicono. Certo anche quella fece un grande mondiale, poi fummo sfortunati nella partita con l’Olanda che valeva la finale. E in quella Nazionale eravamo nove juventini, una cosa ormai irripetibile. Come il fatto di vincere una coppa europea, la prima Uefa della Juve contro l’Athletic Bilbao, con una squadra interamente italiana».
La Fiorentina è stata l’altra sua squadra.
«Tre anni buonissimi. E sfiorammo anche lo scudetto, vinto proprio dalla Juve tra tante polemiche. Da cui io mi tenni alla larga».
Il suo idolo da ragazzo?
«Sivori. Io da ragazzo cercavo di imitarlo, giocavo con i calzettoni abbassati come lui. Poi, pensi, ho esordito in serie A proprio con la sua maglia, la numero 10. Segnando pure. È per questo che io dico sempre ai miei ragazzi della scuola calcio, qui ad Alghero, che se uno ha un sogno deve fare di tutto per coltivarlo».
Il suo compagno ideale?
«Forse Gentile, con cui condividevo l’alloggio da giovane».
Il suo giocatore preferito nella Juve di oggi?
«Quelli che lottano, come Chiellini. Ma non ho preferenze: direi magari Dybala, ma deve trovare continuità. Dire Cristiano Ronaldo sarebbe scontato».
Beh, lì siamo ai livelli di Pelè.
«Calma con certi paragoni».
Che cosa avrebbe voluto ai suoi tempi del calcio di oggi?
«Forse il fatto di giocare a zona. Credo che ci saremmo proprio divertiti. Soprattutto perché allora i terzini non scendevano mai sulle fasce: a parte Facchetti nell’Inter, io e Gentile siamo stati dei precursori».