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 2019  ottobre 04 Venerdì calendario

Pasolini vs Bertolucci, il derby del cinepallone

Il calcio è un film, forse il più bello che ci sia, perché si gira sempre in tempo reale e in 90 minuti. E a dispetto della vita, contempla anche i secondi tempi, più recupero, e all’occorrenza anche i rigori. Ma per noi, la partita più spettacolare vista sul grande schermo, non è quella con Pelè e Sylvester Stallone – stella e portiere della squadra degli alleati prigionieri opposta alla formazione delle SS – in Fuga per la vittoria, bensì i 90 febbrilissimi minuti di una partita quasi surreale: quella tra il cast e la manovalanza del film di Pier Paolo Pasolini Salò e le 120 giornate di Sodoma contro quelli di Novecento, cast e “prestiti” furbeschi compresi, di Bernardo Bertolucci. La formazione di Centoventi venne chiamata alla trasferta quel 16 marzo 1975. Pasolini e la sua troupe lasciavano momentaneamente il set mantovano (la villa di Pontemerlano di Roncoferraro) dove si stavano ultimando le riprese, per raggiungere il campo Cittadella, nella Parma dei Bertolucci. Bernardo per il suo 34° compleanno, da tiepido calciofilo (tifava il Parma con la giusta poetica distanza di papà Attilio), aveva deciso di regalarsi quella sfida “epocale”, rimasta impressa sulla pellicola del Super8 della vedova Bertolucci, Clare Peploe. Spezzoni poi rimontati da Laura Betti (amica di Pasolini e attrice per entrambi i registi) in Laura Betti Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno, uscito nel 2001, e ora materiale del prezioso docufilm Centoventi contro Novecento (Artemide Film, 50’), presentato in anteprima a “Milano Calcio City”, interessante kermesse annuale a cura di Alessandro Riccini Ricci. Opera, realizzata dal tandem Di Nuzzo-Scillitani, che per la prima volta ci mostra quella partita a colori. Perché Pasolini vs Bertolucci, il “derby del cinepallone” fu innanzitutto una sfida estetica. Le maglie dei bertolucciani vennero affidate alla fantasia della costumista del film, Gitte Magrini, la quale creò una tenuta “psichedelica”: completo viola con la scritta diagonale gialla “Novecento” su calzettoni policromi «per confondere gli avversari ad altezza pallone», sottolinea Valerio Curcio, autore di Il calcio secondo Pasolini (Aliberti. Pagine 144. Euro 16,00) dal quale ha preso il via il progetto filmico del regista Alessandro Scillitani e dello sceneggiatore Alessandro Di Nuzzo. Un omaggio al Pasolini sacerdote laico del «calcio di poesia». Calciatore tesserato, per una sola estate (quella del 1941) con i bianconeri della Gil Casarsa e che da fedelissimo al suo primo grande amore non poteva che fare indossare agli undici di Centoventi la casacca a strisce verticali rossoblù del Bologna. Match estetico dunque, ma intriso di molti significati, anche extracalcistici. Specie per Pasolini. Entrambi i film erano prodotti dalla Pea, più munifica con Novecento (nel ricco cast anche due giovani fuoriclasse, De Niro e Depardieu) rispetto al più povero Centoventi e questo generò nel Poeta di Casarsa la “rabbia” che sottaceva una sorta di “lotta di classe” da rivendicare in campo.
«Una differenza macroscopica di budget elargito dalla produzione, certo, ma in gioco c’era anche il rapporto contrastato con il suo ex-allievo Bertolucci, il legame fra quest’ultimo e le radici parmigiane e contadine», spiega Di Nuzzo. Ma sul terreno di gioco non ci fu un effettivo scontro diretto. Pasolini scese in campo convinto delle sue potenzialità di “Stukas” dell’attacco, mentre Bertolucci se ne stava comodamente a bordo campo, nel ruolo inedito di patron-motivatore e dando pieni poteri tecnici e tattici al suo capitano, il microfonista Decio Trani. Capitano della Centoventi quel giorno non fu Pasolini che generoso consegnò la fascia a Ugo De Rossi, montatore e storico braccio destro del direttore della fotografia di Tonino Delli Colli.
Pubblico scarso ma privilegiato, rilanciava sfottò cinematografici all’indirizzo delle due formazioni. «Novelento», perché non finiva mai, e «Salò bleve» in quanto scandalosamente scarno, compresso e tagliato dalla censura, nei suoi 111 minuti originali. «La nostra squadra sembrava l’armata Brancaleone, quella di Pasolini era più forte e lui stesso era un bel giocatore, così come Ninetto Davoli e Franco Citti... Un Brasile rispetto a noi di Novecento», ricorda Decio Trani. Centoventi alla “distinta” per l’arbitro (due furono i direttori di gara, per equità un tempo ciascuno in rappresentanza della propria squadra) aveva lealmente dichiarato la presenza di un ex calciatore autentico, l’attore Umberto Chessari, ex Primavera della Lazio, mentre Novecento per sanare il forte gap tecnico ricorse all’escamotage: ingaggiare dei futuri professionisti del pallone. «Il fotografo Beppe Fontana ci ha raccontato che con Bertolucci convinsero un paio di ragazzi della Primavera del Parma a giocare per loro – spiega il regista Scillitani –. Due “biondi” come si vede nella foto di gruppo e la leggenda per anni ha tramandato che uno di loro fosse il giovanissimo Carletto Ancelotti...». Trattasi appunto di leggenda. Il «biondo», da una voce fuori campo, tifoso della Centoventi e dall’accento di “fuori Parma” viene così denunciato: «Per forza avete vinto, c’avevate lo svedese!». Il fantomatico «svedese» potrebbe trattarsi dell’altoatesino Giuseppe Neumair (dal Parma finì a giocare nel Bolzano), l’uomo in più che diede il via alla rimonta di Novecento.
La squadra di Bertolucci sotto di 2-0, oltre ai rinforzi passati sotto banco, beneficiò dell’uscita anticipata di Pasolini, messo letteralmente in fuori gioco dal macchinista. Tal Barone, all’anagrafe, ma assai poco nobile per le randellate da fabbro sferrate sulle caviglie di un PPP che «infuriato» (ricordava ancora divertito anni dopo Bertolucci) fu costretto ad abbandonare il campo. Grazie al «biondo» e a questi colpi proibiti Novecento pareggiò e poi stravinse il derby del cinepallone. Risultato finale 5-2, con Bertolucci che orgoglioso alzava al cielo la Coppa messa in palio. Seguì una cena all’osteria dallo spirito non proprio da “terzo tempo” rugbistico. I calciatori della Centoventi pare fossero visibilmente contrariati dall’andamento della partita e dall’atteggiamento da “bagolone” (in parmigiano lo spavaldo) di Bertolucci che prese quella Coppa e chiese al cameriere di riempirla di Dom Pérignon per offrirla ai “vinti”. Bertolucci in 90 minuti si era preso una doppia rivincita sul “Maestro” che, non solo non aveva apprezzato Ultimo tango a Parigi (uscito nel 1972), ma si era pure rifiutato di firmare l’appello per il ritiro del film dalle sale per offesa al comune senso della morale e per contenuto osceno. Salò e le 120 giornate di Sodoma non sarà da meno. Ma tornando a quella sera post derby, esistono foto che spazzano via dall’area dei sospetti tracce di presunto rancore mai sopito tra i due registi. Bertolucci si sarebbe riconciliato molto prima del giorno del funerale in cui portò la bara di Pasolini, assassinato – da mani rimaste ancora misteriose – all’Idroscalo di Ostia, il 2 novembre di quello stesso plumbeo 1975. Due giorni dopo l’assassinio, l’aspettavano ancora in Sicilia, alla Favorita di Palermo, per vederlo giocare. «Mille. Duemila? Cinquemila? Quante partite avrà giocato Pasolini?», si chiede Valerio Piccioni in Quando giocava Pasolini. Calci, corse e parole di un poeta (Limina). Tante, perché solo in campo rincorrendo un pallone, sembrava riconciliarsi a pieno con la sua essenza di intellettuale e di uomo libero. «Ho fatto nove film con lui e mentre si girava, ad ogni pausa, Pier Paolo spegneva la cinepresa e accendeva una partitella – ricorda Ninetto Davoli –. Rinunciava a qualsiasi impegno se c’era la possibilità di andare a giocare con la nostra Nazionale». Con l’azzurro della Nazionale attori diede il vero addio al calcio, a Trapani, il 4 maggio 1975, in quella che Salvatore Mugno ha ritratto in L’ultima partita di Pasolini (Stampa Alternativa). Con Bruno Filippini, Don Backy e l’ex centravanti della Roma, Pedro Manfredini, detto “Piedone”, Pasolini conquistò la sua ultima vittoria con la maglia n.“11”. «Quella maglia – ha raccontato commosso Davoli ad Avvenire - gliel’ho messa nella bara... A Pier Paolo, lo so, avrebbe fatto piacere». Perché il calcio era un grande piacere, confessato in tv ad Enzo Biagi: «Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri». E ancora «il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo», proclamò prima dello stop forzato alla sua partita con la vita l’unico vero “Poeta del gol” di questo strano Paese, perennemente nel pallone. Un gioco filologico: i calciatori per Pasolini erano «22 podemi» (proprio come i fonemi) in campo, e le loro combinazioni formano le «parole calcistiche». Parole che diventano immagini, suoni e maglie colorate, da vedere e rivedere in questo unico, nostalgico e irripetibile “derby”, Centoventi contro Novecento.