Il Messaggero, 4 ottobre 2019
#KuToo, basta tacco 12
Bologna, ho appena concluso un dibattito di Confindustria. Scendo dal palco, senza inciampi grazie alle mie sneakers. Ci ho pensato su, è la prima volta che mi presento ad un’occasione professionale senza la décolleté d’ordinanza. Mai tacco 12, ma insomma quel genere di scarpa che ci si attende da una giornalista che conduce un dibattito. Le stesse che calzo in tv. Stavolta no. Scendo e vengo circondata da un gruppo di signore che erano in platea. «Volevamo farle i complimenti per aver osato quelle scarpe sul palco. Ci chiedevamo se avremmo mai visto una donna in un dibattito o in tv senza i tacchi alti. Noi non ne possiamo più. Ci sentiamo obbligate a metterli, ma è una tortura. Perciò grazie per aver sdoganato le sneakers».
In realtà, prima di me, ci hanno pensato le giapponesi. #KuToo, ovvero la marcia delle sneakers contro i tacchi a spillo. Parte dal Giappone, marciando marciando è già diventata legge nelle Filippine e nella British Columbia, mentre a Londra hanno raccolto centocinquanta mila firme a sostegno della stessa campagna.
BUON SENSO NON IDEOLOGIA
Non c’è ideologia dietro il #KuToo, ma solo rivendicazione del buon senso: perché soffrire sul tacco dodici per sei o sette ore al giorno soltanto perché il datore di lavoro pensa sia cool? Lui ci starebbe sui tacchi per sette ore? Essere obbligate a calzare scarpe col tacco alto in omaggio alle regole aziendali (espresse o consigliate) è sembrata una vera violenza a Yumi Ishikawa, un’attrice trentaduenne che ha preso la cosa sul serio, presentando al ministero del lavoro di Tokyo una petizione firmata da 32 mila giapponesi. A dire il vero né il ministero né le grandi corporation nipponiche le hanno dato soddisfazione, ma lei non si è arresa: «Vuol dire che né l’uno né le altre vogliono assumersi il rischio di cambiare la società». La società giapponese, in realtà, sta facendo molti sforzi in direzione di una sorta di parità di genere, il premier Shinzo Abe ne ha fatto un punto di forza del suo programma di governo, consapevole di quanto la crescita economica di un Paese sempre più anziano dipenda dalla partecipazione delle donne al mondo del lavoro. Sul tacco in ufficio, però, non c’è stato niente da fare. Per ora. Perché, come si diceva, la campagna è appena iniziata. E non solo in Giappone.
LA CONTRORIVOLUZIONE
A Londra si è mossa un’altra attrice, Nicola Thorp, e negli Stati Uniti se ne discute anche sulle colonne del New York Times: dopo l’uragano #MeToo,del resto, si sono messi in discussione molti degli stereotipi femminili introdotti dalla controrivoluzione degli Anni 80. Perché l’ossessione del tacco risale proprio a quella stagione, il tempo nel quale secondo la femminista Susan Faludi scattò ai danni dell’emancipazione femminile una vera e propria Controriforma. Fu il tentativo, evidentemente coronato dal successo, di fermare il femminismo e riportare le donne ad una più manovrabile dimensione: quello della femmina a tutti i costi sexy. Sui tacchi a spillo, appunto. Prima, negli anni 60 di Colazione da Tiffany, i tacchi non dovevano necessariamente svettare, Catherine Deneuve era conturbante anche sulle sue Roger Vivier altezza sei centimetri. Alle (poche) impiegate e professioniste non veniva proprio in mente di dover caracollare tutto il giorno ai vertici di vere o finte Louboutin. Vennero poi gli Anni 70 e tutta la mistica della rivoluzione, reggiseni bruciati in piazza e gambe orgogliosamente non più depilate. Come capita dai tempi della Controriforma in poi, alla rivoluzione segue la Reazione e la Reazione, per le donne del mondo occidentale, prese le forme del mantra «riprendiamoci il diritto alla femminilità». Non potendo rispedirle in cucina, la Reazione inventò l’obbligo di essere sexy dalle 7 del mattino fino all’ora di andare a dormire. Puoi anche fare carriera, cara, ma dovrai comunque moltiplicare per dieci i tuoi sforzi, perché oltre a lavorare più di un maschio dovrai essere magra, però con un bel fondoschiena, dovrai avere seni (anche finti) bene in mostra e, appunto, tacchi su cui sgambettare.
MODELLO TURNER
Così, per trent’anni, il modello Controriforma si è imposto, al cinema (ricordate Kathleen Turner di Una donna in carriera?), Nelle serie tv dove si parlava molto di sesso, ma sempre vestite come Barbie (Sex and the city). Persino in Parlamento o almeno in quello Italiano, il modello Barbie si rivelò vincente. Quando nel 1994 una pattuglia di neo elette di Forza Italia calcò per la prima volta il Transatlantico, lo fece rivendicando con orgoglio due cose: essere donne di destra e, a differenza delle colleghe di sinistra, donne trionfalmente sui tacchi. Da allora molte scarpe si sono consumate in Transatlantico e nessuno potrebbe riconoscere una deputata di destra da una di sinistra, il tacco a spillo essendo ormai sdoganato con successo in tutte le aree dell’emiciclo. Sabato scorso, ospite del programma che conduco su SkyTg24, Maria Elena Boschi ha argomentato razionalmente la predilezione per le scarpe alte: «Mi sono sempre piaciute, sono un omaggio al nostro made in Italy. C’è il momento delle ballerine e quello del tacco 12». Ovviamente lei calzava deliziose décolleté e io per coerenza le solite sneakers. Scegliere è una cosa meravigliosa, stare sette ore sui tacchi per obbligo non lo è. Vedere per le strade di New York o di Londra professioniste o commesse di mezz’età che si trascinano il sacchetto con le scarpe da calzare una volta arrivate nel loro studio legale o nel grande department storie dove lavorano fa perfino un po’ tenerezza. Perché anche se hanno 60 anni ci si aspetta da loro che reggano il modello imposto dalla Controriforma Anni 80. Un modello che a quanto pare affascina sempre meno le ventenni. A Parigi, a Londra, a Milano, tra le creative delle grandi agenzie di pubblicità, così come nel mondo della moda, a nessuna verrebbe più in mente di girare su tacco 12. Per loro «fa antico». La lunga marcia del #KuToo per loro è già cominciata.