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 2019  ottobre 03 Giovedì calendario

Marina Corradi, la figlia di Egisto

«Di notte, quando porto fuori il cane, finisco spesso sotto casa di mio padre che abitava a 300 metri da qui. Guardo. Lo sento presente». Marina Corradi, editorialista di Avvenire oltre che scrittrice, è la figlia di Egisto Corradi, storico inviato speciale del Corriere della Sera e del Giornale di Indro Montanelli, che collaborò a fondare. Un padre vincente, amato da tutti. Eppure il romanzo, molto autobiografico, che Marina ha appena pubblicato per l’editore Marsilio, s’intitola L’ombra della madre. Si chiamava Annamaria Cucchi. Era una nobildonna, bella, elegante, in possesso di due lauree. Ma con un marito sempre in giro per il mondo dietro a guerre, invasioni e alluvioni, si rassegnò alla cura della casa e dei tre figli che divennero il tutto della vita. Un padre monumento e una madre ingombrante. Segnati dal destino.
Lei scampò al naufragio del Sussex, il traghetto britannico che il 24 marzo 1916 affondò nelle acque della Manica, colpito da un U-Boot tedesco che l’aveva scambiato per una nave da guerra. Tra i passeggeri c’era una donna italiana con i suoi due figli, un bambino di due anni e una bimba di cinque mesi. Nel dramma del momento la donna lanciò la bambina agli occupanti di una scialuppa calata in mare, ma finì nelle acque gelide. Affondò. Poi riemerse e fu recuperata da braccia ignote. Superò la notte avvolta nei mutandoni di lana di cui si privò una suora, anche lei naufraga. Quella bimba era Annamaria, mamma di Marina. Quasi trent’anni dopo, il suo futuro marito si salvò dalla Ritirata di Russia che raccontò in memorabili reportage (raccolti in un libro edito da Mursia): «Camminavamo ora veloci ora lenti, a seconda della intensità della tormenta. Io avevo l’impressione di camminare sempre nello stesso luogo, come in un incubo; o di muovere vanamente le gambe sopra un tappeto mobile. Dopo qualche ora la superficie ci apparve rotta da un qualcosa che sembrava un insieme di bassi cespugli. Non erano cespugli, ma una decina di cadaveri. Erano nudi, non si capiva se erano italiani o tedeschi o russi».
Con genitori così non è strano che la vita di Marina sia stata attraversata dall’inquietudine. Che la sua scrittura abbia una grazia speciale nel cogliere l’intimo delle persone. E che la sua casa di Milano sia punteggiata di foto e documenti del padre: la stampa di un volantino della resistenza ungherese contro i sovietici o la cartina che lo orientò nella steppa russa.
La ritirata di Russia, descritta da Egisto Corradi
Non è paradossale che il libro s’intitoli L’ombra della madre?
«Ho vissuto più con lei che con lui. Lei ha condizionato la mia infanzia e adolescenza. Soffriva, ma era due persone in una. Per noi figli è stata una lotta di sopravvivenza».
Avrai subito anche l’ombra del padre.
«Ovviamente ne sono stata molto influenzata, anche se era sempre via e l’ho conosciuto e amato tardi. M’illudo di dialogare ancora con lui».
Perché questo romanzo?
«È la storia di una famiglia disastrata che ha vissuto con trent’anni di anticipo il disfacimento della famiglia di oggi».
Che cosa è successo?
«Papà e mamma si conobbero prima, ma si sposarono dopo la guerra. Durante, lui le scriveva bellissime lettere dal fronte. Dopo il matrimonio, papà cominciò a viaggiare per lavoro. Mamma soffriva la solitudine e la vita in casa. Quando mia sorella morì a 14 anni, il castello crollò. La malattia di mia madre peggiorò. Mio padre tornava distrutto dal Vietnam, con la barba lunga e l’impermeabile sgualcito, ma lei esplodeva nel suo risentimento. Si separarono. Eravamo negli anni Sessanta».
La Teresa del romanzo sei tu?
«Nella prima parte sì. Nella seconda ho mischiato le carte perché compaiono persone tuttora vive».
Il marito e padre è un ingegnere di piattaforme petrolifere.
«Anche lui molto assente, costretto a lunghe trasferte».
Di cosa è morta tua sorella?
«Di cancro».
Cos’ha significato per te?
«Sono stata a lungo turbata. Continuavo a chiedermi: vivono tanti stronzi, perché doveva morire una ragazza piena di talento come lei?».
E alla fine?
«C’è qualcosa d’imponderabile che non possiamo stabilire noi».
Tua madre però è crollata.
«La capisco, da quando sono madre anch’io. Se mi capitasse di perdere un figlio così non so come reagirei, pur con tutta la mia fede».
Un’immagine del naufragio del Sussex
Due genitori scampati alla morte: la tua vita è stata dall’inizio un duello col destino?
«Per tanto tempo ho pensato che fosse cieco e casuale. Avevo una visione nichilista: se quello che si è sporto dalla scialuppa per salvare la bambina dall’annegamento non ci fosse riuscito io non avrei sofferto così tanto. Poi, grazie ad alcuni amici, ai figli e a don Fabio Baroncini che è stato un secondo padre, ho scoperto un disegno buono, uno sguardo positivo».
Si avverte la necessità di sentirsi figlia. E di essere madre?
«Diventarlo mi ha sbalordito. Io, che non sono capace di niente, avevo fatto un uomo».
Oltre alla precocità dello sfaldamento familiare, considerato che è un romanzo autobiografico c’è un motivo personale?
«Ce ne sono due. Il primo è che ho rimesso faticosamente insieme i cocci. Grazie all’amore di mio marito e all’esperienza di Comunione e Liberazione ho ritrovato Dio e riallacciato i fili della mia storia. Avevo una nonna cristiana e molto dolce. Il secondo motivo è aver perdonato mio padre per la sua assenza. Ma soprattutto mia madre che, senza volerlo, ci rendeva la vita impossibile».
Come ci sei arrivata?
«È stato un cammino lungo. Anche lei ha sofferto molto. Chi non sa cos’è la depressione, il dolore psichico, non se lo può immaginare. Sono stata aiutata da mio marito. Ho capito che o questo dolore ti distrugge oppure ti migliora».
Anche l’incontro di cui parli potrebbe essere casuale?
«Preferisco credere in un destino buono. Ero incuriosita dal cristianesimo. Mi è venuto il dubbio che un catechismo di divieti mi avesse precluso la sua parte migliore. Ricordo il pomeriggio in cui alla Feltrinelli di Milano ho chiesto I pensieri di Pascal e Le confessioni di Sant’Agostino a un commesso un po’ stranito».
Abbiamo in comune l’amicizia con il professor Eugenio Borgna.
«Gli sono molto affezionata. Possiede una parola taumaturgica, che guarisce».
Quando hai deciso di fare la giornalista? Quanto c’entra tuo padre?
«Fin da piccola scrivevo bene, a scuola leggevano i miei temi. Ho iniziato nel 1981 alla Notte di Livio Caputo. Non sarò mai come papà, mi dicevo, presa dall’imperativo psicanalitico: misurarmi con lui e dimostrarmi brava per essere amata».
E lui?
«Diceva che scrivevo bene, ma che non avevo il mestiere nella pancia. Morì nel 1990. Un anno dopo, per una reazione vitale, mi sono sposata. Oggi gli direi che nella pancia ho avuto tre figli».
Quanto è compatibile il mestiere di inviato con le responsabilità di madre?
«Non lo è. Quando partivo avevo le nausee. Pensavo a mio padre che riceveva le chiamate dal giornale per il disastro del Vajont o per qualcos’altro. Fremente, buttava le cose in valigia e spariva. Avvenire mi ha mandato in posti bellissimi. Ma quando entravo in hotel mi maceravo pensando ai miei figli a casa col morbillo».
Dopo La Notte?
«Sono stata a Repubblica tre anni. Era ideologizzata e io mi annoiavo. Accettai la proposta di Avvenire. Papà ne fu sconvolto. Forse rivedeva il suo passaggio dal Corriere al Giornale. Dopo aver letto una corrispondenza dal Santo Sepolcro mi telefonò per dirmi che aveva capito la scelta».
Come visse l’addio al Corriere?
«Dopo trent’anni in via Solferino fu come un altro divorzio. Si sentiva emarginato, ma fu coraggioso a ricominciare a 60 anni».
Che consigli ti dava?
«Mi diceva: “Vai, guarda e racconta come se scrivessi una lettera al tuo più caro amico”. Quando si parla con un amico non si usano verbosità o astrusità».
Egisto Corradi, inviato gentiluomo
Dicevi che t’illudi di dialogare ancora con lui: cosa ti direbbe oggi?
«Insisterebbe sull’importanza della precisione per chi fa cronaca. Quand’era sul Po per l’alluvione misurava la piena con un bastoncino, senza fidarsi dei numeri ufficiali. Penso che avrebbe potuto essere più di un cronista. Ma lui ripeteva: “Meglio un bravo giornalista che uno scrittore mediocre”».
Oggi tanti giornalisti modesti scrivono libri ancor più mediocri.
«Non giudico. A me piace soprattutto scrutare gli occhi delle persone. Adoro Georges Simenon, le sue nebbie, i dialoghi. C’è un giallo in cui Maigret dice a un assassino: “Non si rende conto che sto facendo di tutto per tirare fuori l’essere umano che è in lei?”».
Altre letture?
«Dopo aver letto Alberto Moravia, mi sono disamorata alla letteratura italiana contemporanea. Preferisco gli autori del pensiero cristiano: Luigi Giussani, Joseph Ratzinger, Jorge Mario Bergoglio. Mi piacciono Charles Péguy e Etty Hillesum che considero una sorella maggiore, pur senza esser stata nel lager. Da ragazza un altro grande amore è stato Dino Buzzati, uno che ha sempre cercato. Era collega di papà e nostro vicino di casa. Abitava al piano di sotto e si svegliava nel cuore della notte per un tonfo sul pavimento».
Cosa succedeva?
«In Russia papà era stato sfiorato da un carro armato. Adesso era il suo incubo ricorrente. Il carro gli passava vicinissimo e lui rivedeva il numero di matricola. Scostandosi di colpo cadeva dal letto».
Sei contenta di aver scritto questo libro?
«Chissà. Probabilmente, se lo leggesse mia madre s’incazzerebbe perché si parla di lei in termini di verità. Se lo leggesse mio padre anche, perché è un romanzo. Però, a un certo punto, bisogna emanciparsi anche da un padre come Egisto Corradi».
Alla fine vince il destino buono.
«Vince, anche se la positività non mi viene facile. Se non mi fossi convertita mi sarei immiserita brigando per la carriera».