il Giornale, 3 ottobre 2019
Intervista a Joaquin Phoenix
A Los Angeles persino gli autobus dipinti di nero per l’occasione – portano enormi scritte «Joker» sulla facciata. L’operazione di promozione del film di Todd Phillips che vede protagonista Joaquin Phoenix nei panni di uno dei più famosi «cattivi» dei fumetti è stata enorme, e questo fine settimana si attendono i frutti, ovvero incassi formidabili. In Italia è arrivato oggi, un giorno prima e le aspettative non sono da meno anche grazie al Leone d’Oro ottenuto a Venezia. Dopo Cesar Romero, Jack Nicholson, Heath Ledger e Jared Leto è dunque la volta di Joaquin Phoenix a indossare i panni del famosissimo villain, anche se la sua è un’operazione diversa dalle precedenti, che cercherà di portare il pubblico a comprendere le ragioni del Joker, lasciando ben poco spazio al perfido personaggio conosciuto sulle strisce di Dc Comics.
Grazie a questa versione tragica e decadente l’attore dicono i bene infornati arriverà alla sua quarta candidatura all’Oscar (dopo Il gladiatore, Quando l’amore brucia l’anima – Walk the line e The Master). Tutto della sua interpretazione esprime grande talento: la danza folle per i gradini delle scalinate di Gotham City, una lacrima che scende sul suo volto clownesco, la risata dolorosa che affligge il suo alter ego Arthur Fleck, le torsioni quasi involontarie del suo fisico emaciato. «Quando il regista mi ha proposto la parte ho pensato: no, non c’è proprio verso che lo faccia. Non so nulla di fumetti, io. Poi ho compreso la prospettiva unica e coraggiosa di Todd Phillips. Seguiva il suo istinto e mi piaceva, mi piaceva la sua empatia nei confronti di Arthur Fleck».
Qualcosa che esulava dai fumetti.
«Esatto. Mi ha affascinato l’idea che quasi nulla di quello che avremmo raccontato sarebbe stato preso dai fumetti. Il regista aveva la sua visione e, anzi, io temevo di contaminarla».
Al contrario, ne è venuto fuori un personaggio tragico, un uomo preso a calci dalla vita, uno psicolabile abbandonato dai servizi sociali.
«E pensare che adoro ridere più di qualsiasi altra cosa. Non è mia ambizione battermi il petto e piangere per guadagnarmi da vivere».
Invece, anche quando ride, Arthur Fleck fa soffrire.
«L’idea di quella risata tragica è stata una delle prime del regista. Voleva che Arthur fosse oppresso da una risata incontrollabile, non sintomo di gioia ma, al contrario, di dolore e sofferenza fisica».
Porta perfino in tasca un biglietto, che porge a chi si offende: «Soffro di un disturbo... non abbiatevene a male».
«Non ero convinto di riuscire a rendere quella risata, così ho invitato il regista a casa mia, per provarla. Lui si è seduto sul divano e io mi sono piazzato davanti a lui. Mi ci sono voluti vari minuti prima di trovare la risata giusta. Temevo che, se avessi sbagliato, avrei poi sviluppato una qualche memoria muscolare che mi avrebbe riportato sempre lì, a quel primo errore. E quindi immaginate la scena: Todd seduto davanti a un pazzo che per un periodo piuttosto lungo tenta di produrre una innaturale risata. Dopo un po’ mi sono accorto dell’imbarazzo nei suoi occhi. Era veramente a disagio. Continuava a ripetermi che non era il caso che continuassi, e io invece insistevo».
L’ha lasciato andare?
«Sì, ma davvero trovare la risata giusta è stato molto più difficile di quanto immaginassi».
Il Joker piace da sempre. Cos’è che affascina così tanto di lui?
«Non lo so. Non so se piace a tutti per lo stesso motivo. Secondo me no. Ognuno di noi trova in lui qualcosa di affascinante e di diverso».
La sua opinione è cambiata ora?
«Io non ho mai letto i fumetti, quindi non è che lo conoscessi così bene prima. Quando abbiamo girato la prima scena in cui spuntava il Joker ero spaventato, poi tutto è diventato più facile. Anche tornare a indossare i panni di Arthur, dopo, è stato diverso, avevo più compassione per lui».
Il Joker è il risultato della malattia di Arthur. Come avete affrontato il rischio di dipingere come pericolosa la malattia mentale?
«Io, più che la malattia, in Arthur vedo il disagio, risultato di prolungati traumi, famigliari e sociali, e ci vedo un mondo e una realtà sanitaria che non sa come comunicare con questi disagi, allora prescrive medicine».
Non pensa che questo film abbia anche un forte messaggio politico? Appunto, viviamo in un mondo in cui chi ci governa è più bravo a far assegnare medicinali che a rimuovere le cause del disagio.
«Mi piace che questo film faccia pensare, che sfidi il pubblico a ragionare di politica e società. Credo che siano pensieri differenti per ognuno di noi, ognuno si relazionerà al protagonista in maniera diversa. Non credo che Todd Phillips volesse fare uscire un messaggio così preciso, ma che volesse fare pensare, quello sì, lo credo».