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 2019  ottobre 03 Giovedì calendario

L’angoscioso alfabeto della globalizzazione

Caro direttore, l’alfabeto della globalizzazione si fa ogni giorno più angoscioso: A come auto, il dinosauro industriale prossimo venturo; B come banche centrali, ormai fabbriche a ciclo continuo di trilioni di moneta a tasso zero; C come Cina, la rivale degli Usa nella guerra fredda 2.0.; D come dazi, tra le armi più usate in questa guerra; E come Europa post Brexit, persi i mari e ridotta sul continente l’Europa rischia di sedere al tavolo globale, ma non come commensale, come pietanza; G come Greta, con l’allarme sul clima o sull’inquinamento; H come Hong Kong, il simbolo delle rivolte in incubazione in tutta l’Asia; I come inflazione, in un mondo capovolto questa considerata non più come una nemica, ma come una irraggiungibile amica; L come «Libra», l’eversiva moneta senza Stati; M come manifattura, ovunque in calo; O come «over the top», come amano definirsi i signori della «rete», ormai convinti d’essere sostituti multifunzione degli Stati; P come petrolio, con le connesse turbolenze geopolitiche e religiose; R come recessione, annunziata dai «cigni neri» che volano sopra Wall Street, a partire dal classico default argentino per arrivare agli allarmi per l’eccesso o gli improvvisi e misteriosi buchi di liquidità, e poi ancora allarmi sui prestiti a leva o sul declino dei valori immobiliari; T come turisti della storia, come in gran maggioranza ci si presentano gli statisti contemporanei. 
Tutto questo non è per caso, non è fatale, non è l’effetto di una oscura imperscrutabile maledizione. Nel novembre del 2006, in un’intervista al Corriere («L’America rischia un nuovo ’29»), e poi nella primavera del 2008, in un libro («La paura e la speranza. La crisi globale che si avvicina»), ho detto e scritto sulla crisi globale, allora quasi universalmente esclusa, se non da alcuni che tuttavia ne vedevano solo i sintomi finanziari e non le cause politiche. 
E fu proprio questo, prima l’esplosione imprevista e istantanea, poi il dilagare globale della crisi, fu tutto questo che nell’autunno del 2008 colpì e lasciò attonito il mondo. A realizzarsi era ancora l’utopia della globalizzazione, ma questa volta in negativo: come tutto era divenuto globale, così era globale anche la crisi. 
Flashback. Trenta anni fa, nel luglio del 1989, anno questo bicentenario della Rivoluzione francese, ho scritto un articolo che il Corriere titolò: «Una rivoluzione che svuoterà i Parlamenti». 
Già allora si poteva infatti vedere che si stava spezzando la catena politica fondamentale: la catena Stato-territorio-ricchezza. La ricchezza usciva tanto dai confini politici degli Stati, quanto dai confini fisici della realtà. Caduto il Muro (tre mesi dopo) e liberato «internet», stava per essere sovvertito il sistema secolare del capitalismo, un sistema che certo era fatto dalla ricchezza, ma anche dalle nazioni con le loro regole. 
E tuttavia non bastavano né la nuova libertà, né la «rete», serviva una ideologia e questa fu il «mercatismo», il mercato «sicut deus», l’ultima ideologia del ’900. Una ideologia questa che nella globalizzazione si è fatta prima utopia e poi magia, finalmente realizzando il millenario mito dell’«età dell’oro». E tutto questo ha funzionato più o meno per 20 anni, fino a quando la crisi ha chiarito ai popoli che i sacerdoti e gli sciamani della finanza non erano più capaci di garantire «la pioggia e il raccolto». 
Parlando della seconda guerra mondiale Churchill notava: non sono state due, è stata un’unica guerra, pur se intervallata da un lungo armistizio. Nel 2008 in tutte le sedi internazionali (G7, G20, Fmi, Eurogruppo, Ecofin) mi permettevo di ripeterlo: la crisi finanziaria non era alle spalle e certo non poteva avere termine agendo solo dal lato della finanza. 
Fu allora e fu su questo che, in sede internazionale, si confrontarono due visioni. Quella del «Global Legal Standard», un trattato multilaterale scritto da giuristi italiani (qui ricordo Guido Rossi), votato all’unanimità in sede Ocse e mirato a introdurre, a monte della finanza, regole sull’economia reale. Per contro la visione del «Financial Stability Board» (38 missioni, 16.000 pagine, un testo lungo 80 chilometri lineari), scritto dalla finanza e per la finanza al solo fine di comprare tempo. A prevalere è stata quest’ultima visione. Allora fu la vittoria di Creso, oggi sempre più è una vittoria di Pirro. 
Nel tempo presente al posto del vecchio global order si sta formando un opposto global disorder nel quale sono sempre più evidenti e prossimi i segni di «ritorno» della crisi globale e questa, rispetto al principio, ancora più grave, perché è ormai vuota la cassetta degli attrezzi. 
Mi si può dire che tutto questo è pessimismo. E certo vorrei che lo fosse. Per ora e per mio conto penso comunque a quanto sarebbe stato, e ancora oggi possa essere saggio seguire il proverbio: fermati e aspetta che la tua anima ti raggiunga.