Corriere della Sera, 3 ottobre 2019
Perché è giusto valutare i professori
È giusto che un professore sia giudicato da uno studente? O che per pubblicare un articolo scientifico debba subire la recensione di colleghi esperti, ma magari invidiosi delle sue idee, magari più brillanti delle loro? La risposta è sì.
Sapiens (l’essere umano che, a conferma del Darwinismo, dalla notte dei tempi è sopravvissuto sino al 2019) non può lasciare alla discrezionalità individuale la decisione di quanto sia giusto o sbagliato, ma deve dotarsi di una bussola. E questa bussola è data dalle sue interfacce: i suoi pari e coloro che usano il suo servizio.
Ha ragione il Professor Piperno a porre enfasi e interrogarsi sulle (tante) imperfezioni del sistema accademico e sulla rigidità dei controlli che vengono imposti alle università per legittimare la loro attività. Per gli addetti ai lavori, molte di queste attività sono non solo frustranti, ma incoerenti con la creatività che caratterizza la Scienza e l’Arte – le due colonne portanti del mondo accademico.
Tuttavia, è fondamentale discernere tra le imperfezioni del sistema e gli errori, che non ci possiamo permettere, soprattutto se vogliamo vincere la battaglia del rientro dei cervelli, che in tutto il mondo sono abituati a standard chiari e precisi per misurare la performance del loro operato. È cioè fondamentale non confondere quello che è migliorabile con quello che è inopportuno.
Come faccio a misurare la qualità della didattica di un professore?
Beh, vi sono diverse metodologie che sono state sviluppate negli ultimi trenta anni. Certamente i questionari di «customer satisfaction» (soddisfazione dello studente), che vengono adottati dal sistema italiano, rappresentano lo strumento più rudimentale. Ricco di imperfezioni, soprattutto se implementato come viene fatto attualmente, ovvero permettendo agli studenti non frequentanti di esprimere un giudizio sul corso (!) con peraltro domande barocche e a volte retoriche e simili a quelle della «customer satisfaction» di operatori di altri settori. Ma questa metodologia è solo la base di una serie di strumenti progressivamente più sofisticati, adottati in altri Paesi – che per inciso sono avanti a noi nei ranking. Metodi in cui i giudizi degli studenti vengono selezionati sulla base di chi ha frequentato il corso. O addirittura vengono ponderati valutando l’impatto intertemporale delle carriere degli studenti di quel professore. Sino a giungere a commissioni di colleghi-professori che presenziano alle lezioni del giudicato per valutarne l’efficacia espositiva e valutativa.
Venendo invece alle pubblicazioni: cosa rende scientifico un lavoro? Una validazione da parte di una autorità che stabilisce che, quanto è stato scritto, oltreché originale, ha delle basi solide, dei fondamenti. Se no, siamo nel mondo delle opinioni – Vax o No Vax? Ognuno dice la sua, con buona pace al Professor Burioni. È questa scienza? Chiaramente no.
Siamo tutti ben consapevoli dei limiti che un sistema del genere sottenda, soprattutto se l’anonimato viene gestito ad arte o se non esiste un «arbitro» leader (il redattore della rivista) in grado di scegliere le persone competenti o in grado di smistare le pubblicazioni in modo coerente. Ma la differenza tra le riviste di fascia A e le altre, è proprio questa. Ed è per questo che è così difficile pubblicare nelle riviste di fascia A: è come la Champions League. Ci sono giocatori e arbitri migliori delle leghe e delle rispettive serie B.
Un collega famoso autore di uno dei paper più citati in Google Scholar nel campo delle scienze sociali ama raccontare che nel processo di pubblicazione su una rivista di fascia A la moglie una domenica pomeriggio si mise a leggere i rapporti anonimi prodotti dagli arbitri della rivista a cui aveva sottoposto il paper e... si mise a piangere. Lui la consolò dicendo che su alcuni punti gli autori dei rapporti avevano ragione anche se lui non condivideva e che quello che avrebbe dovuto fare era dimostrare loro che avevano torto. Il paper è oggi un punto di riferimento nella teoria aziendale moderna.
L’open science e le nuove modalità di pubblicazione ci aiuteranno a trovare forse sistemi più equi, ma non sono ancora riusciti a farlo. Perché se alla fine tutti pubblicano tutto, quello che ha successo non è scienza, è mercato, un po’ come il giudizio popolare della finale di Sanremo e X factor.
Da tempo l’accademia si interroga su cosa sia giusto o sbagliato, e la strada da percorrere è ancora lunga, ma il sentiero se vogliamo competere a livello globale è tracciato. In Dio crediamo, tutti gli altri portino fatti. Questo è il motto della scienza. E in epoca digitale dove i dati sono la materia elementare sarebbe troppo rischioso cambiare paradigma.
(l’autore è il Rettore dell’Università Bocconi)