Corriere della Sera, 3 ottobre 2019
Una sfida epocale alla chiesa
Ci sono ragioni ben più importanti di quelle dei buongustai per continuare a ragionare intorno alla decisione di bandire la carne di maiale dalla preparazione dei tortellini in occasione della festa del santo patrono di Bologna: provvedimento motivato dal desiderio di non offendere la sensibilità di coloro cui il precetto religioso vieta di mangiare la carne di quell’animale. Ragioni più importanti anche degli sgangherati berci in difesa delle «nostre tradizioni» a cui la destra italiana è solita abbandonarsi in queste circostanze. Perché qui non si tratta tanto delle «nostre tradizioni» o di altre cose simili. Si tratta, a me pare, di alcuni decisivi indirizzi di fondo della Chiesa cattolica. Infatti, anche se l’arcivescovo di Bologna, il cardinale Zuppi, ha rifiutato la paternità della decisione, egli l’ha comunque fatta sua, confermandone l’origine negli ambienti della Curia o comunque ad essa vicini.
In via preliminare viene comunque da porsi una domanda. Posto che ad avere l’interdetto religioso a cibarsi della carne di maiale sono oltre i musulmani anche gli ebrei, risulta forse che nelle precedenti celebrazioni qualcuno, e per prima naturalmente la Curia attuale, si sia mai preoccupato di creare loro qualche imbarazzo servendo per la festa di san Petronio i tortellini tradizionali? Non mi pare. So bene che a Bologna gli ebrei sono una sparuta minoranza mentre la presenza degli islamici è una presenza numerosa.
M a basta questo a fare la differenza in materia di «accoglienza»? Almeno simbolicamente la sollecitudine alimentare, chiamiamola così, non sarebbe dovuta valere anche per gli ebrei?
Certo, a pensare male si fa peccato, ma è difficile credere che quando si tratta di Islam e di islamici, allora non si tenga inevitabilmente conto della capacità di pressione dell’immensa comunità islamica mondiale, delle potenzialità che essa rappresenta, del peso altrettanto formidabile delle immense risorse finanziarie del mondo arabo e, mettiamoci pure questa, dell’estrema suscettibilità di taluno dei suoi membri, pronta a trascendere nella violenza più feroce (ne sa qualcosa proprio la cattedrale di san Petronio, da anni guardata a vista dall’esercito a causa di una sempre incombente minaccia degli islamisti per via dell’esistenza tra le sue mura di un’effige di Maometto non di loro gusto). Tutte cose che per gli ebrei non si pongono di certo.
Ma tralascio queste osservazioni per venire alle questioni più importanti che è dato scorgere dietro la decisione bolognese. Quella decisione, infatti, testimonia di qualcosa di generale e di profondo che riguarda un modo d’essere e di pensare che sempre più appare l’attuale modo d’essere e di pensare della Chiesa cattolica. È la tendenza, ormai avvertibile per mille segni, a confondere l’ universal e con l’ indistinto. A interpretare l’intima vocazione del cattolicesimo verso il mondo, la sua storica indole missionaria ad accogliere tutto il mondo dentro di sé, come equivalente alla necessità di confondersi con il mondo stesso, di recepirne esigenze, prospettive, lessico, punti di vista. Si badi non sto rimproverando affatto al magistero di indulgere a una qualche forma di quietismo morale, di «laissez faire» dottrinale o pratico di fronte alla dimensione del peccato che domina il mondo. Si tratta di un problema del tutto diverso, collegato ad una straordinaria novità storica. Al fatto che a partire dalla seconda metà del Novecento un’ideologia etica di ambito planetario è andata via via emergendo, per la prima volta nella storia, muovendo da un nucleo originario rappresentato dalla formulazione dei diritti umani. Di essa sono venuti progressivamente a far parte, insieme alla crescita continua dei suddetti diritti, il pacifismo, l’ecologismo, l’antisessismo e quant’altro potesse essere compreso in un’ indistinta prospettiva mondialistico-buonista sotto l’egida di qualche organizzazione o movimento internazionale.
Il cattolicesimo romano con la sua consustanziale ambizione universale si è così trovato di fronte alla sfida interamente inedita di qualcosa che di fatto ambiva a stargli alla pari; che gli stava alla pari. Si è trovato a fare i conti con una sorta di morale anch’essa universale, d’ispirazione naturalistica e di tono fortemente laico, il cui effetto era, ed è, di porre in subordine ogni specifico discorso religioso, ormai ineluttabilmente avviato, si direbbe, a figurare al massimo come una parziale articolazione di sapore arcaico e quasi folklorico di quel più vasto afflato etico che guadagna spazio ogni giorno.
La rinuncia bolognese al maiale testimonia in modo perspicuo di una postura che la Chiesa cattolica – sostanzialmente per difendersi nella sfida di cui sopra – tende oggi ad assumere. E cioè la tendenza a deporre ogni tratto della propria identità storica che denunci uno scostamento troppo marcato dai principi dell’indistinto etico-mondialista. Così facendo la Chiesa è convinta, bisogna credere, di aprirsi positivamente al mondo; e alla fine di riuscire in tal modo ad assimilarlo a sé, potendo tra l’altro essa disporre di una risorsa – il Sacro – di cui l’umanesimo buonista non può disporre. Se tale assimilazione – nella quale è sempre la Chiesa cattolica e mai gli altri che di regola appare rinunciare a qualcosa – potrà avere un reale successo, ovvero se al contrario quell’assimilazione preluda ad una virtuale fusione della Chiesa nel mondo; se piuttosto che fare cristiano il mondo la Chiesa stessa finirà invece per farsi eguale al mondo: dalla risposta che i fatti daranno a questi interrogativi dipenderà l’avvenire del cattolicesimo. E forse anche l’avvenire di qualche cosa d’altro.