la Repubblica, 3 ottobre 2019
La nuova sepoltura del corpo di Franco
Le statue dei quattro evangelisti, i due arcangeli nell’atrio, i 39 santi che sulla cancellata circondano san Giacomo il Maggiore, gli angeli di bronzo in preghiera sotto la cupola rischiano di rimanere soli, di guardia alle ossa ignote dei 30 mila falangisti sconosciuti morti nella guerra civile spagnola. Dalla tomba principale, davanti all’altare e a un crocifisso di ginepro, se ne andrà infatti il dittatore che ha regnato per quasi quarant’anni sulla Spagna, e che dal 1975 è sepolto sotto una lastra di granito con due incisioni, una croce e il nome su cui si appoggiano i fiori: Francisco Franco.
La Corte Suprema, all’unanimità, ha infine dato il via libera alla decisione del governo di esumare il corpo del Generalissimo, per trasportarlo nel cimitero di Mingorrubio, a El Pardo, dove viveva Franco negli anni del comando. La famiglia, che si è sempre opposta, tenta un’ultima ribellione burocratica, ricordando che mancano i permessi edilizi per scoperchiare la tomba, mentre il priore della basilica de la Santa Cruz del Valle de los Caídos, don Santiago Cantera, si prepara alla resistenza finale contrapponendo il sacro al profano, e annuncia che ubbidirà soltanto al Papa. Ma ormai non si torna indietro: «È una grande vittoria della democrazia spagnola – spiega il premier Pedro Sánchez —, per riparare le sofferenze delle vittime di Franco. Giustizia, memoria e dignità».
La sepoltura infinita del dittatore trova dunque il suo termine, cancellando l’ultima contraddizione della democrazia, difficile da reggere: mantenere una tomba d’onore per un despota che si era costruito da solo un monumento perenne, a gloria della sua opera, della repressione, della fascistizzazione del Paese, perpetuando nel sepolcro il credo d’investitura perenne per il “Caudillo de España por la gracia de Dios”. E infatti non ci sono date sulla tomba, perché la concezione missionaria del potere di Franco sfidava il tempo e la misura, presumendo di coincidere direttamente con la storia di Spagna, anzi di più, col suo destino.
Nella mitomania inquieta di ogni tirannia convivono il sentimento dell’eternità e l’incubo della corruzione di ogni cosa, il potere, il comando, il consenso, la fortuna, l’eredità e infine il corpo. Forse è per questo che in Spagna la biologia ha assecondato l’ideologia per 36 anni, perché Franco non voleva morire, e si ribellò persino alla sua stessa agonia dilatandola oltre il disumano, con la complicità di una corte che vedeva spegnersi con lui anche il suo stesso potere, e capiva che sarebbe stata dispersa con il rintocco finale della campana nei funerali di Stato, ultimo giorno di sudditanza al dittatore, primo giorno della liberazione.
Eppure l’idea della morte lo accompagnava da sempre, forse dal momento in cui forzò l’agonia di suo padre Nicolás, mandando nella casa dove viveva con la sua compagna, dopo la separazione, due cappellani militari che gli imposero la confessione e l’estrema unzione. Aveva visto come muore un re quand’era ancora Capo di stato maggiore, assistendo a Londra ai funerali di Giorgio V nel frac preso a nolo. La morte era una minaccia costante, sospesa in permanenza accanto al potere. I suoi uomini lo circondavano di paure, vietandogli di pescare di notte per timore di un attentato subacqueo, cercando invano di sconsigliargli l’auto scoperta per la visita di Stato del presidente americano Eisenhower e suggerendone una blindata, cambiando gli itinerari all’improvviso, addirittura nascondendo il medico- tutore Vicente Gil (cultore di boxe) dietro le tende del suo studio per vigilare sugli incontri più delicati.
Ma lui si era poco per volta convinto che Dio, avendogli affidato la redenzione della Spagna e la sua salvezza, dovesse tenergli la mano sopra la testa. Nella battaglia di El Biutz riuscì a sopravvivere con una pallottola nel fegato; rimase illeso quando l’auto si capovolse nel ’35 mentre tornava a Madrid con la moglie Carmen, e ci furono due morti; fece un volo notturno d’emergenza da Salamanca a Escalona senza sapere che il secondo pilota era antifranchista e aveva già deciso di fuggire con quello stesso aereo per passare il fronte; e soprattutto si salvò quando a Natale del 1961, mentre era uscito a caccia nei sentieri del Pardo, la doppietta gli scoppiò tra le dita perché aveva messo in canna due cartucce per errore, e gli spappolò la mano.
Convinto dalla memoria familiare e dalla superstizione che in casa Franco si muore gerarchicamente in ordine di anzianità, riconobbe fatalmente la sua ora quando la vide avvicinarsi. Man mano che perdeva le forze, tuttavia, capiva che il regime perdeva peso, autorità e sicurezza, slabbrandosi ai suoi confini (dove ministri e generali incontravano sempre più spesso alla Zarzuela don Juan Carlos, l’erede designato ed educato come futuro re, mentre diradavano le visite al Pardo) nell’attesa infinita dell’"evento biologico”, come si sussurrava nel mondo antico che lo circondava. Lui dormiva ormai col vecchio mitragliatore belga sotto il letto, probabilmente assediato dal ricordo delle repressioni sanguinose che aveva scatenato, i 200 mila morti giustiziati con la garrota o la fucilazione, i 300 mila incarcerati, le prove violente di forza esibite in pubblico contro il dissenso «per estirpare la zizzania», il lapis “Faber” rosso e blu con cui siglava le condanne da eseguire e quelle da rinviare, mentre faceva merenda con i soliti biscotti.
Il corpo, che tutti spiavano per indovinare la sorte della nazione, come se fosse lo scrigno del futuro, mandò i suoi segnali in anticipo, quando tutto era ancora ben saldo attorno al dittatore, all’inizio degli anni ’60. Per prima giunse la sonnolenza. Lui aveva sempre dormito poco la notte, come già sua madre Pilar. Ma ecco che gli occhi gli si chiudevano di giorno, si assopiva all’improvviso, qualche volta persino durante le udienze ufficiali, per svegliarsi intontito e indispettito per questa debolezza. In realtà, anche se il Paese non doveva saperlo, era arrivato il Parkinson, coi suoi 70 anni: tremolio crescente, umore declinante, rigidità dell’espressione, sguardo fisso, tanto che gli interlocutori si domandavano che cosa stesse scrutando dentro di loro, che cosa cercava, cosa vedeva. La fisiologia curvava la biografia, il suo andamento eroico, il mitico procedere in crescendo, come un bolero.
Aveva già lasciato il tennis per il golf, rinunciando al cavallo, pescava soltanto da postazioni sicure, immobile, raccontando quando aveva preso 181 salmoni in una sola uscita, riusciva tuttavia a rimanere ore e ore seduto nel Consiglio dei ministri senza andare in bagno, e se ne vantava. Dieta controllata, niente strappi, si concedeva un cognac fuori dai pasti e un bicchiere di vino solo quando arrivava in tavola la groviera, non permetteva che si fumasse davanti a lui (unica eccezione il Principe), tanto che aveva fatto togliere i posacenere dalle stanze delle riunioni. Ma la decadenza avanzava implacabile come una condanna patologica e una minaccia politica, passava dal suo corpo al corpo mistico del regime, tutto si indeboliva e su tutto cresceva la febbre di una fine impronunciabile ma sempre più inevitabile. Uguale al tempo passato restava solo il suono mattutino della diana militare, che lo svegliava ogni volta dal cortile interno del Pardo, come in caserma.
Tutti videro, e capirono, quando la famiglia del Generalissimo s’imparentò con la famiglia reale nel ’72, nel matrimonio della nipote di Franco, María del Carmen, con don Alfonso di Borbone. Doveva essere una festa, fu una rivelazione, anzi un disvelamento. Nessuno si avvicinò al Caudillo mentre attraversava il salone degli specchi tremolando, passava tra gli arazzi pompeiani con gli occhi incantati, trascinava i piedi nell’oratorio, fino al divano laggiù in fondo alla saletta grigia. L’immagine roboante e ridicola nell’adulazione del “Capitano del miracolo”, “Principe del portento”, “Spiga della pace” s’incrinò quel giorno, accartocciandosi nelle mani della vecchiaia, a cui doveva infine cedere anche il potere assoluto.Ci volle un anno perché si convincesse, ma nel luglio 1973 lasciò la guida del governo, rimanendo Capo dello Stato. Tra i fedeli, il prescelto per guidare l’esecutivo fu Luís Carrero Blanco, proprio l’uomo che trent’anni prima gli aveva suggerito di farsi re, prendendo la corona senza sovrano. Piange in tv ai funerali, quando pochi mesi dopo l’Eta con un attentato feroce fa saltare per aria il primo ministro, e con quella bomba esplode anche la sua pretesa di controllare l’avvenire, comandarlo, guidandolo persino dopo la sua scomparsa, l’unica vera forma di immortalità.
Comincia a sospettare che il futuro si ribellerà, capisce che non ha il potere di incarcerarlo. Ma aspetta, fiducioso e sospettoso insieme. Quando nell’estate del 1974 una tromboflebite lo costringe a cedere i poteri a Juan Carlos, come reggente, se li riprende il prima possibile, appena fuori dalla clinica. La salute del regime è ormai legata alla salute vacillante del suo corpo. Che se non riesce più a essere vigoroso, deve almeno sembrarlo agli occhi del popolo. Quando decidono di trasportarlo in aereo al Pardo, preparano di notte una scaletta dell’Iberia nel giardino e lo allenano a scendere i gradini, fino a quando è pronto per ingannare le telecamere. Nello smarrimento fisico che diventa politico la violenza deve sembrargli l’estrema garanzia di potenza. Così Salvador Puig Antich il 2 marzo del ’74 è l’ultimo strangolato dalla garrota, e per giustiziarlo Franco disubbidisce persino alla supplica di papa Paolo VI. Quando tutto il mondo protesta per l’esecuzione di cinque terroristi dell’Eta, lui compare ancora una volta alla finestra della Plaza de Oriente davanti ai falangisti, parlando ormai solo tre minuti scarsi, immobile nella divisa da Generalissimo, con gli occhiali scuri e tutte le medaglie in mostra in mezzo ai saluti fascisti.
Una settimana più tardi ha una crisi cardiaca, pochi giorni dopo un’emorragia gastrica, a cui si aggiunge un edema polmonare. Lo operano tre volte, la prima in una sala operatoria improvvisata al Pardo, poi lo ricoverano e comincia la confessione prudente ma evidente dei bollettini medici. L’agonia durerà un mese intero, col premier Carlos Arias Navarro che esce dalla stanza in lacrime, i due medici che si prendono a ceffoni nell’anticamera, i riflettori delle tv di tutto il mondo che illuminano la Ciudád Sanitaria de la Paz per tredici giorni e tredici notti, fino al momento estremo quando il regime vuole tenere in vita almeno il corpo se non più la persona, e lo circonda di borse col ghiaccio per contrastargli l’ultima febbre. Arrivano due immagini sacre della Madonna, la Vergine di Macarena e la Vergine di Chamorro, l’arcivescovo di Saragozza stende sul suo letto il mantello della Vergine del Pilar. Riesce a baciarlo, e quando apre gli occhi fissando il cappellano Bulart sembra che adesso pretenda da Dio quell’aiuto eccezionale a cui pensa di avere diritto per le sue imprese, come difensore della cristianità che ha consacrato la Spagna alla Santa Eucarestia. Pio XII, d’altra parte, gli aveva concesso l’Ordine Supremo del Cristo, «supremo tra gli ordini equestri pontifici, che tutti supera in lustro e grandezza»; una petizione popolare aveva chiesto che gli venisse consegnato il berretto cardinalizio; il primate Pla y Deniel aveva ordinato che durante ogni messa, piana o cantata, si pronunciasse una preghiera con la formula Ducem Nostrum Franciscum; i vescovi lo accoglievano sotto il sacro baldacchino. Alla fine chiede gli venga portato il braccio incontaminato di santa Teresa, la reliquia che ha tenuto per anni in camera, davanti al letto, imprestandola brevemente soltanto ai parenti in pericolo di vita. E ciononostante non può fare a meno di morire, alle 4.40 del 20 novembre 1975.
Non aveva lasciato scritto dove voleva essere sepolto, ma aveva fatto di più, progettando il sacrario monumentale ai caduti a Valle de los Caídos, moderna piramide del franchismo, costruita dai prigionieri politici, in cambio di qualche privilegio nella pena, come gli incontri con le famiglie. Un monumento-specchio per il dittatore, fuori dal tempo, con la pretesa di fermare la storia nella gloria della pietra. Oggi quella pietra si ribella, finché il funerale pubblico di Francisco Franco non diventerà privato, col corpo del Generalissimo che entrerà infine nella tomba di famiglia al Pardo, quella cappella dove dal 1988 lo aspetta con la moglie Carmen l’ultima scritta sul soffitto: «Io sono l’alfa e l’omega».