la Repubblica, 3 ottobre 2019
Sulla cultura tribale dei talebani
Qadir Hekmat è giovane, è nato negli Anni ’80. Forse ricorda appena le prime campagne dei Talebani a metà degli Anni ’90, quando il movimento portò in Afghanistan un ordine cupo e puritano nel caos che fece seguito al ritiro sovietico. Oggi ha 35 anni e per quasi tutta la sua vita adulta è stato un combattente talebano. Le sue parole dimostrano quanto poco sia cambiato nell’ideologia e nei valori del movimento. I suoi obiettivi e le sue opinioni potrebbero appartenere ai combattenti che intervistai in Afghanistan e in Pakistan vent’anni fa. Quando gli si chiede se i Talebani siano cambiati, Qadir parla solo di tecnologia. Si vanta del fatto che, oggi, i Talebani usano telefoni cellulari, droni, Gps, social media e «pianificano le nostre operazioni militari con Google Maps». In altre parole: l’ideologia rimane la stessa.
Alcuni analisti sottolineano la disponibilità del movimento a trattare con gli Stati Uniti, o addirittura a prendere in considerazione una sorta di compromesso politico, come conseguenza e quasi come giustificazione di tutto il sangue versato e delle risorse spese. Ma questo significa dimenticare che i Talebani fecero degli accordi con la mediazione dei diplomatici statunitensi alla fine degli Anni ’90, inviarono dei rappresentanti alle Nazioni Unite e negoziarono con gli operatori umanitari.
Un elemento nuovo, naturalmente, è lo Stato islamico, che i Talebani vedono come un nemico, sostenuto dagli Usa e dagli “ebrei”. Ma anche questo non significa un nuovo modo di pensare. I Talebani si sono a lungo opposti a qualsiasi altro gruppo che avesse una visione del futuro dell’Afghanistan diversa dalla loro, fosse pure la visione di altri estremisti islamici.
Da tempo i Talebani si considerano dei nazionalisti, e mettono gli interessi della loro patria al di sopra di quelli della Umma, la comunità globale dei musulmani, e della Jihad globale. Non hanno mai cercato di espandere i confini dell’Afghanistan, né di stabilire un controllo permanente su altre parti della regione. Si potrebbe obiettare che non è necessario perché, come è evidente nelle parole di Qadir, i loro collegamenti culturali, tribali e di altro genere con il Pakistan e lo stretto rapporto con le fazioni che vi hanno sede manifesta che, quanto meno, esercitano già de facto una significativa influenza in questo Stato confinante. Ma quando Qadir dice di essere fiero di vivere o di morire come combattente, è per la sua “patria invasa” che è pronto a farlo.
Non sorprende quindi che, nei recenti colloqui di pace, i Talebani si siano affrettati a garantire che, se avessero un ruolo di potere o di controllo del Paese, non permetterebbero a nessun gruppo o individuo di usare l’Afghanistan come trampolino di lancio per degli attacchi internazionali. Anche questa è stata una posizione storica. Gli attacchi dell’11 Settembre si fecero all’insaputa dei leader talebani dell’epoca e il movimento non è ancora mai stato collegato a episodi di violenza al di fuori della regione. I Talebani si considerano dei patrioti.
Ovviamente, ci sono gli aspetti culturali e sociali del progetto dei Talebani. Il movimento trae ispirazione da varie fonti: la tradizione islamica Deobandi ferocemente conservatrice, la pratica religiosa in Arabia Saudita, una visione idealizzata della società rurale afgana, e la cultura tribale tradizionale Pashtun. In questo immaginario mondo “purificato”, un’interpretazione letterale dei testi islamici da parte dei chierici fornisce le leggi, e la polizia religiosa le fa rispettare. Le donne, viste come un elemento di disturbo e contaminazione, sono costrette ad obbedire a norme severe che le riducono a cittadine di seconda classe, proprietà dei loro padri, fratelli e mariti. La giustizia è dura, ma è rapida e onesta, non come quella dello Stato afgano. «A differenza della polizia governativa, noi non chiediamo tangenti per portare la giustizia», dice Qadir.
Questa è la visione che motivò i primi Talebani (la parola deriva dal termine persiano che indica gli studenti delle scuole coraniche) 25 anni fa. E allo stesso modo motiva i Talebani di oggi. Rimane la ragion d’essere del movimento, per quanto possano mutare le circostanze politiche o militari. Nel 1998, i muri del ministero degli Affari religiosi di Kabul vennero ricoperti di scritte. Vi si leggeva: «Getta la ragione ai cani, puzza di corruzione». Anche questo principio è molto improbabile che sia cambiato.
(traduzione di Luis E. Moriones)