Anche sul terrazzo continua a tormentare fra le mani il suo fazzoletto a quadri, e si lascia scivolare su un lato della fronte la cuffia bianca da preghiera. Basta il rumore di un elicottero lontano per fargli incupire lo sguardo. L’espressione non è del tutto amichevole, e la prima frase suona ammonitrice: «È meglio che non andiate in giro per la città, oggi. È pericoloso». La barba corta nasconde a malapena le piccole cicatrici sul volto. Ma sono soltanto vecchie tracce di acne, non di combattimenti. Hekmat ha 35 anni: ne aveva sedici quando è partito l’intervento Usa, dopo l’11 settembre.
Come ha deciso di aderire ai talebani?
«Vivevo nel Logar con la mia famiglia, studiavo in una madrassa. All’inizio credevamo che gli americani fossero arrivati per ricostruire il Paese e portare sviluppo. E invece ci siamo accorti che massacravano donne e bambini, che entravano nelle nostre case con la forza, che uccidevano i musulmani o liimprigionavano senza motivo. Non è stato un incidente specifico a farmi decidere che volevo oppormi agli invasori. In realtà non c’è un solo villaggio dove non abbiano commesso crimini di guerra o ucciso innocenti».
Quale è stato il suo percorso?
«Ho fatto un anno e mezzo di addestramento in Pakistan: Peshawar, Quetta, Miran Shah nelle zone tribali. Poi sono rientrato, per comandare un primo drappello di trenta combattenti. Obbedisco al mullah Habaitullah Akhundzada, non ho mai incontrato il mullah Omar, ai suoi tempi ero troppo giovane».
Come è organizzata l’attività?
«C’è una riunione di vertice ogni due mesi, in coordinamento fra due strutture, i talebani legati alla Shura di Quetta e la rete Haqqani. Ogni network porta le risorse che ha disponibili per le operazioni: intelligence sul posto, armi, combattenti. Non ci sono rivalità, gli Haqqani sono più attivi a Nord e a Est, noi a Sud e a Ovest. Ma uniamo le nostre forze contro gli invasori americani e i militanti di Isis-Khorasan».
Che differenza c’è fra voi Talebani e i fondamentalisti che giurano fedeltà ad Abubakr Al Baghdadi?
«Loro sono wahabiti, seguono l’influenza saudita. Di fatto hanno creato una nuova famiglia eretica, con l’aiuto degli ebrei e degli Stati Uniti, per dividere i musulmani. Ma le differenze sono soprattutto nelle operazioni. Noi non attacchiamo mai obiettivi civili, matrimoni, funerali. Americani e Isis, sì».
Ma nei vostri attentati muoiono tanti civili. L’assalto al Green Village, la zona fortificata di Kabul, all’inizio di settembre, è costato la vita ad almeno 16 persone, fra cui diversi bambini.
«Ci spiace quando muoiono civili.
Ma in certe azioni le vittime sono inevitabili. Noi cerchiamo di colpire quando il pericolo è minore. Quell’attacco è stato condotto di notte proprio per cercare di non coinvolgere i passanti».
Parliamo dei vostri nemici, Isis-K e americani. Li mette sullo stesso piano?
«Fanno lo stesso tipo di azioni militari, e collaborano fra loro. Se non fosse per le forze americane, che intervengono ogni volta per bombardarci quando accerchiamo gruppi di Isis-K, questi sarebbero stati spazzati via da tempo. Si vede che gli Usa hanno bisogno di aiuto per i loro piani. Vogliono soltanto impadronirsi delle nostre risorse. Se veramente fossero arrivati esclusivamente per catturare Bin Laden, sarebbero andati in Pakistan. Ma Islamabad è un loro alleato stretto, tanto è vero che non gli hanno mai imposto sanzioni. E quando se ne andranno lasceranno tutte le attrezzature al Pakistan, che pure è la madre di tutti i terrorismi.
Mi stupisce che la Nato, Italia compresa, abbiano deciso di seguire gli Stati Uniti in questa operazione sciagurata».
Come giudica la sospensione dei colloqui di pace a Doha tra voi e gli americani?
«Noi non vogliamo un bagno di sangue ed eravamo pronti a firmare un accordo di pace, ma gli Usa ci hanno ripensato. Per noi non è un problema. Sul terreno stiamo vincendo, avanziamo senza sosta e abbiamo chi ci sostiene, in Iran, in Russia, in Cina, nello stesso Pakistan. Anche per l’ultimo attacco a Qalat, nella provincia di Zabul, con una grande esplosione su uffici governativi, abbiamo usato esplosivo arrivato da fuori». (Il riferimento è al minivan carico di tritolo che ha devastato un ospedale, uccidendo venti persone, lo scorso 19 settembre).
Ma se conquisterete tutto il Paese, che succederà alle donne?
«Hanno un ruolo fondamentale nell’Islam, sono sempre rispettate. L’emirato aveva grandi progetti dedicati alle donne, ma non ha fatto in tempo a svilupparli. Non è vero che siamo contrari all’istruzione femminile, basta che le scuole siano separate da quelle maschili. Nelle zone controllate da noi, le ragazze vanno a scuola regolarmente. E abbiamo anche medici donna, ce n’è sempre necessità. L’acido gettato in faccia alle studentesse? È il gesto individuale di un fanatico».
L’Occidente teme il ritorno della polizia del vizio e della virtù, che frustava le donne secondo il loro abbigliamento.
«Mi dica, in Italia una donna può girare nuda senza violare la legge? Non credo, sarebbe subito arrestata. Ecco, quelle sono le vostre regole. La nostra è la Sharia, e prevede che le donne portino l’hijab».
Non il burqa?
«Il Corano dice solo che le donne non devono vestire in maniera immodesta».
Insomma il progetto dei Talebani è esattamente la rifondazione dell’emirato islamico, com’era nel 2001?
«Da allora il mondo è cambiato. Anche noi Talebani siamo cambiati. Grazie alla tecnologia, soprattutto. Telefoni cellulari, droni, Gps, social media… Oggi pianifichiamo le nostre operazioni militari, attacchi, avanzate e vie di fuga, con Google Maps».
Dell’emirato in Occidente si ricordano soprattutto le punizioni sommarie e le lapidazioni. Non è cambiato nulla nel vostro modo di amministrare la giustizia?
«A rispondere dovrebbe essere la popolazione afgana. Nelle province che amministriamo ci segnala i crimini e interveniamo subito. E anche nelle zone contese si rivolge a noi, perché, al contrario della polizia governativa, non chiediamo mazzette per portare la giustizia».
Lei ha mai ucciso qualcuno? Se l’ha fatto, che cosa racconterà ai suoi figli?
«Ai miei figli racconterò che ho combattuto per liberare la patria dagli invasori. E che ne sono fiero».