la Repubblica, 2 ottobre 2019
Biografia di Federica Saraceni
Vive in un bilocale della periferia romana. Vive inseguita dalla sua storia di militante brigatista, Federica Saraceni, 49 anni, due figli, condannata per l’omicidio di Massimo D’Antona. Imprigionata in un passato che non passa. E che ora torna a galla per quei 623 euro di reddito di cittadinanza, percepiti secondo la legge, ma a dispetto del sangue versato e della condanna definitiva a 21 anni di carcere, diventati arresti domiciliari.
Reddito scandaloso per la vedova D’Antona: “Non tutto quello che è legale è anche giusto”. Per i familiari delle vittime: “Lo Stato non può pagare chi ha ucciso i suoi uomini migliori”. “Reddito di infamia” per la Lega che pure ha votato la legge, quando proprio Matteo Salvini era ministro dell’Interno, aveva titolarità per accorgersi del buco normativo e che oggi prova a nascondersi alzando la polvere delle polemiche.
Un errore per tutti. Salvo per il padre di Federica, Luigi Saraceni, ex fondatore di Magistratura democratica, ex deputato dei Ds e Verdi: “Cosa dovrebbe fare per vivere mia figlia, prostituirsi? Fare le rapine?”. E poi: “Consentitele di lavorare per mantenersi, liberandola dai domiciliari”.
Ma anche quello sarebbe un corto circuito, liberata anzi tempo da una condanna per una delle storie più atroci della nostra cronaca recente, l’avventura fuori dal tempo delle Nuove Brigate Rosse, una ventina di sbandati guerrieri che in una manciata di anni, tra Roma, Bologna, Firenze, assaltano a modo loro lo “Stato delle Multinazionali”, rapinano, sparano, riesumando il rito feroce degli agguati. Uccidono tre volte. Massimo D’Antona il 20 maggio 1999 a Roma, Marco Biagi a Bologna, 19 marzo 2002, entrambi colpevoli di essere consulenti del Ministero del Lavoro, dunque complici della “oppressione della classe operaia”. E uccidono Emanuele Petri, sovrintendente della polizia ferroviaria. I primi due sparandogli alle spalle sotto casa. Il terzo in un conflitto a fuoco, sul treno interregionale, località Castiglione Fiorentino, 2 marzo 2003, quando i due capi dell’organizzazione, Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce, incappano in un controllo casuale. Reagiscono sparando. Galesi uccide e resta ucciso. La Lioce viene catturata. Nei loro computer gli investigatori scoprono tutti i fili dell’organizzazione.
E smantellandola trovano le prime tracce di Federica Saraceni, buona borghesia romana, nata nel 1969, proprio nell’anno in cui comincia la stagione degli Anni di Piombo. Lei all’inizio sembra solo una fiancheggiatrice dell’organizzazione. Una maestra d’asilo, che ha incrociato per caso o impazienza le persone sbagliate. E che scoppia in lacrime quando l’arrestano, 24 ottobre 2003.
La sua storia racconta che a sedici anni frequenta il Centro sociale Blitz. Fa politica nel Movimento. A diciannove va a vivere in una casa occupata. Conosce Mario Galesi che gestisce lotte nei quartieri. Dirà al processo: “Ero giovane, avevo meno di vent’anni”. Ma a trenta incrocia la strada di Laura Proietti, militante di Autonomia in superficie, in realtà già inserita nei Nuclei comunisti combattenti. Con lei inizia “un rapporto politico”. Che al processo spiega così: “Ci vedevamo a casa mia, leggevamo Marx e Lenin, discutevamo”. E poi? “Quando capii che voleva arruolarmi, ho interrotto i rapporti”.
Vero? Al processo di primo grado le credono a metà e la condannano a 4 anni per favoreggiamento. Ma in Appello troppi fili la legano alla banda armata. Per dieci mesi, nel 1999, ha affittato un appartamento a Cerveteri, che secondo gli inquirenti è una base logistica, secondo lei, “una casa che mi serviva per studiare e stare da sola”. Scoprono che ha in uso schede telefoniche che compaiono nel flusso delle comunicazioni tra i brigatisti, comprese tre telefonate partite dalla cabina telefonica vicina a casa D’Antona, nei giorni che precedono l’attentato.
Dunque, partecipazione ai pedinamenti e all’omicidio. Fino a quella mattina di maggio, ore 8,13, quando D’Antona percorre i suoi ultimi 130 passi e all’angolo tra via Salaria e via Po, finisce davanti a Mario Galesi che lo aspetta dietro a un cartellone pubblicitario, gli spara nove volte, l’ultima al cuore.
Lei al processo del 2008 rivendicherà la lettera scritta ai giornali, con il falso nome di “Marina”, chiedendo “onore a te, dolce Mario”, subito dopo la sua morte nella sparatoria ferroviaria, “che hai dato la vita per sconfiggere l’ingiustizia di questo mondo”. E quando il giudice le chiede: “Ma Galesi muore sparando a un’altra persona, lo sapeva?” in aula risponde: “Morire per una scelta, giusta o sbagliata che sia, è segno di coerenza”. La condanna definitiva diventa pesante, 21 anni e 6 mesi. Lei piange di nuovo. Si è giocata la vita, giocando con la vita degli altri.
E la pena che le tocca è anche in questo corto circuito che torna a illuminarla, anche se sono spiccioli, invece del sangue.