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 2019  ottobre 02 Mercoledì calendario

Intervista a Pupi Avati

È da poco uscito nelle sale cinematografiche Il signor Diavolo, ultimo lavoro di Pupi Avati, il cui successo cinquantennale non è forse dovuto solo a fattori tecnici ma a una precisa «visione del mondo» sottesa alla sua produzione. Il film è stato accompagnato da due pubblicazioni, edite da Bietti: Gotico padano, di Claudio Bartolini e Ruggero Adamovit, e un numero monografico di Inland, che affronta il mondo avatiano a trecentosessanta gradi, soffermandosi in particolare su questa «visione del mondo», tesa tra folklore e immaginario, Medioevo e modernità, le assolate distese emiliane e un Altrove più vicino di quanto si possa pensare. Proprio da qui ha preso le mosse questa chiacchierata.
Qual è la chiave di volta della sua cinematografia «fantastica»?
«È anzitutto l’idea che il fantastico conviva con la realtà. Noi tutti nasciamo con un potenziale fantastico enorme, viviamo in un mondo in cui possibile e impossibile sono contigui, ma poi la ragione fa sì che la parte non verificabile venga rimossa. Le persone creative, che mantengono un rapporto con l’immaginario, continuano a giudicare realtà e irrealtà come dotate della stessa dignità. Ammettono, insomma, che l’improbabile possa subentrare al probabile. Sono convinto esista un mondo parallelo, alternativo, nel quale potersi rifugiare e su cui contare. Spesso tace, abbandonandoci al silenzio e al dubbio, ma si propone sempre. Il rapporto con l’immaginario è una tribolazione continua, ma è l’aspetto più vivace, misterioso e sacrale della nostra vita».
È il «Grande Altrove» che fa spesso capolino nei suoi film.
«Per concepirlo, occorre porsi in una condizione di ascolto, partendo anzitutto dalla convinzione che esso esista. Uno stato di assoluta ricettività, basato su un totale indebolimento della ragione. Ne L’Arcano Incantatore (1996), per accedere a questo Altrove il protagonista si fa salassare. È la stessa condizione descritta da Dante all’inizio del suo viaggio ultraterreno, quando parla di un’estrema sonnolenza, una continua spossatezza è questo stato a renderlo ricettivo. Secondo Robert Frost, il poeta è come una ricetrasmittente; riceve messaggi, e solo nel trascriverli scopre quel che fa. Allo stesso modo, Poe parla della catatonia in cui si trova mentre scrive i suoi racconti, che descrivono sempre qualcosa situato oltre la Realtà. L’ascolto è il pertugio attraverso cui si accede all’Altrove. Lo stesso accade nella preghiera, stato di attesa sacrale nel quale attendiamo l’arrivo di qualcosa di cui non siamo noi gli autori».
Esiste quindi un rapporto tra fantastico e sacro?
«Vede, io credo che la sacralità sia una componente fondamentale della nostra vita. Tutto ciò che sfugge alla ragione, che è misterioso e inesplicabile, mi affascina profondamente. Provo una grande nostalgia per l’educazione preconciliare di quando ero bambino quella difesa da Cristina Campo, una scrittrice che adoro, che si è occupata molto di liturgia. Un’educazione dotata di una profonda e misteriosa componente sacrale, oggi guardata con diffidenza; il Dio a cui ci rivolgevamo era imperscrutabile. A essere indecifrabile era il Sommo Bene ma anche, in qualche misura, il Sommo Male».
A quest’aspetto è dedicato il suo ultimo lavoro, Il signor Diavolo.
«Il tema è proprio il Male, che ha un’importanza da non sottovalutare. Ho la sensazione che, come il Bene, anch’esso giochi un ruolo significativo nella nostra esistenza. Da questo punto di vista, si può dire che la sacralità del Bene e la sacralità del Male abbiano, in qualche modo, pari dignità. Certo, esiste anche un Male per il Male, privo di finalità apparenti, spesso esercitato dagli uomini di potere. Non saprei definirlo. O è legato a disturbi psichiatrici oppure trova una giustificazione in quell’Oltre di cui ho già parlato, grazie a cui passiamo dal Bene al Male. Ed ecco apparire, nel titolo del film, il signor Diavolo».
È, tra l’altro, un male ormai «normalizzato».
«Vede, un tempo, quando ero piccolo, si praticava il cosiddetto esame di coscienza. La sensazione è che, oggi, non solo nessuno ci induca a compiere quest’autoanalisi, ma che vi sia una sorta di autoassoluzione, una morale prêt-à-porter che trova nell’utile la propria giustificazione. Basta andare in chiesa: durante la Messa, la Comunione viene impartita a tutti. Eppure, nessuno più si confessa. Tutti si autoassolvono o, forse, nemmeno si pongono il problema dei loro peccati. Me ne rendo conto e capisco di essere parte di un mondo che sta scomparendo».
Mi ha stupito molto scoprire, in Gotico padano, che uno dei suoi libri preferiti è Il mattino dei maghi, manifesto del realismo fantastico
«Quando lo lessi per la prima volta, vidi spalancarsi qualcosa che istintivamente intuivo già, connessioni a cui non avevo mai pensato con il nitore e la chiarezza che avrebbero dato loro una verosimiglianza. Avevo la sensazione che Louis Pauwels e Jacques Bergier mi stessero regalando una chiave con cui poter rileggere la storia attraverso un approccio del tutto diverso, una libertà che poi mi avrebbe spinto a scrivere la serie Voci notturne (1995), che rievocava i riti della Roma arcaica, riportandoli nel presente. Una prospettiva fantastica, fantastorica, che per anni e anni mi ha affascinato. Ben prima di Dan Brown e affini».
Nei suoi film si è spesso occupato di Medioevo.
«In Magnificat (1993), ad esempio, con il suo approccio rosselliniano alla storia, ricostruita attraverso gli Annali francesi che si sono occupati seriamente di Alto Medioevo. Studiando questi testi, ero stupefatto vedendo che gli storici italiani non avevano sondato e raccontato adeguatamente quel periodo. Quello di Magnificat è un Medioevo in cui la sacralità è ovunque: nelle persone, nelle cose, nella vita, nella morte. Dentro di me, sento che si trovano proprio lì le nostre radici. Nel corso dei secoli, abbiamo fatto di tutto per nasconderle, per tacitarle. Eppure, proprio in questo approccio sacrale al Tutto che è misterioso ma, al tempo stesso, perfetto e armonico risiede la mia autenticità».