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 2019  ottobre 02 Mercoledì calendario

La nausea di Céline era vera

Pochi hanno avuto la fortuna di leggere Nausée de Céline di Jean-Pierre Richard, originariamente messo in appendice a La bella rogna, la traduzione italiana del Les Beaux Draps, edita nel 1982, e subito ritirata dal mercato per una questione di diritti. Positivamente recensito da Le Figaro magazine in occasione della sua ristampa nel 2008 («Si contano a bizzeffe gli studi dedicati all’autore del Viaggio al termine della notte, ma se dovesse restarne uno solo, forse sarebbe proprio questo qui, quel Nausea di Céline, che regge in meno di 100 pagine»), questo piccolo gioiello viene ora finalmente riproposto nel nostro paese dalle Edizioni Passaggio al bosco.
Ed è evidente sin dal titolo che col termine «nausea» si preavverte il lettore del riferimento a Sartre e all’ostilità reciproca. Un odio che si innesca nel 1945, quando questi cuce sull’altro un vestito da antisemita al soldo dei nazisti, e quello replica con uno spassoso e spietato pamphlet (All’agitato in provetta). 
Richard utilizza tale termine riconnettendolo a quella vicenda ma ha il merito di andare oltre, tentando di decrittare attraverso il suo significato metaforico la condizione umana nell’immaginario di Céline. E Sartre serve appunto da termine di paragone. Se infatti il suo disgusto d’esistere si muove intorno ad una dimensione metafisica e non scade mai nella decifrazione dell’epidermide, il dottor Destouches si muove nel solco sensoriale degli eventi. Ed è la carneficina della guerra, ben decritta nel suo Voyage, a rivelargli la centralità della carne e di tutto ciò che è primordiale e materiale. Quello fu il primo contatto con la nausea, la rivelazione che il corpo è in realtà solo «carne destinata al sacrificio». Quando Bardamu, nelle prime pagine, giunge in un macello all’aria aperta dove si taglia il cibo della truppa, così lo descrive: «Ce n’era per chili di trippe esposte, di grasso in fiocchi gialli e pallidi, di montoni sventrati con i loro organi all’aria che colavano in ruscelletti ingegnosi sulla verdura circostante». Nel caotico ammasso di organi flaccidi e di viscere sformate, non ci sono ossa, non vi è parvenza di struttura solida e organizzata che faccia risalire ad un corpo. Ma tutto è sempre e solo carne, materia, disfacimento.
Se Sartre è quasi rassicurante quando trova una via di fuga dialettica nel concetto di «niente», Céline fa il percorso inverso. Non predispone alcuna soluzione arzigogolata se non quella di accettare la putrefazione e i fumi maleodoranti che ritroviamo in guerra ma anche nella più banale quotidianità in cui il caldo soffocante, gli odori, i sapori e il tessuto dell’esistenza entrano sempre in decomposizione: «l’anarchia dovunque e nell’arca, io, Noè sfessato». E per Richard, lo sfessato, o meglio lo sbracato è una delle grandi categorie celiniane. Perché se Sartre si incammina su percorsi metafisici, Céline si denuda per farsi carico della realtà con l’obiettivo di «denunciare fuori da sé lo sbracato degli altri», mai cedendo alla tentazione letteraria di creare dei mondi, di impreziosire il lessico che, pur crudo, resta armonioso e musicale. Nello «sbraco», nella necessità di rappresentare plasticamente e senza riverberi il registro della carne, si riconosce però il tentativo di una rivelazione, l’epifania della verità che si insinua tra muffa, bave, escrezioni, vomiti, muchi, emorragie, diarrea, viscere. Tutti rifiuti che, come il soprammobile per Mallarmé, siano essi umani o urbani, interiori o esteriori, sono oggetti in cui si palesa il nulla e dove c’è «l’immagine fisiologica più sorprendente e più nauseante dello sfacelo in cui l’intero universo è trascinato». E perciò non può mancare l’invettiva contro il falso mito, ottimistico e romantico, del popolo: «quell’orda pesante, stercoraria» costituita da «quel sacco per larve» che è l’uomo.
Lo sfacelo è infatti la verità essenziale che si palesa dappertutto, anche nelle costruzioni umane della periferia parigina, nell’estremo limite africano, nelle fabbriche americane o nelle vie newyorkesi. E la vita può essere solo una difesa contro questo inevitabile sfacelo che è già in noi, che possiamo tentare di arginare ma da cui non guariamo perché il voler essere si situa fuori dalla verità dell’essere e perché «in fondo, l’uomo è soltanto putrefazione in sospeso». Cosicché, barlumi di spiritualità possono essere ricercati solo nell’abbandono che ci porta fino al termine della notte. 
Proprio dove si arrestò un attimo prima Sartre, timoroso dell’essere per la morte.