Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  ottobre 02 Mercoledì calendario

Le stroncature di Giovanni Raboni

Giovanni Raboni è stato uno dei nostri poeti più illustri (la cui produzione è stata consacrata da un Meridiano nel 2006), traduttore di tutta la Recherche di Proust, e critico militante. La sua pubblicistica è sterminata e copre decenni di attività. Mondadori ha raccolto nel volume Meglio star zitti? una selezione delle sue stroncature. Il poeta milanese, come recita la quarta di copertina, ingaggia “una solitaria e disperata sfida etica”. Disabituati a un discorso critico acuminato, ci siamo presi il gusto di pescare alcune punture di spillo. A cominciare da tre classici del secondo Novecento.
Raboni, nel commentare l’uscita della raccolta delle opere di Moravia dal 1927 al 1947, scrive: “Mi sono sorpreso a pensare: che bello se Moravia si fosse fermato qui! Che vantaggio, per lui e per tutti noi, se la sua mano si fosse rifiutata di vergare le centinaia, le migliaia di pagine sempre più astratte, faticose e banali, sempre meno sorrette dalla necessità e dalla grazia, che formano il ripetitivo ammasso della sua sterminata produzione postbellica!”. Su Pasolini non è meno tenero: “In tutti i suoi scritti analizza, critica, denuncia con estrema lucidità e chiarezza; ma se questo è un grande merito per un intellettuale, non lo è per un poeta. E sta di fatto che dalle Ceneri di Gramsci in poi le poesie di Pasolini sono dei ragionamenti in versi, privi di un concreto e autonomo spessore figurale. Perché lo strano destino di questo grande intellettuale è stato quello d’essere poeta in tutto, nella critica come nel giornalismo, nella filologia come nel cinema, in tutto, tranne che nella poesia”. Impietoso su Sciascia: “La tanto decantata limpidità illuministica del suo stile narrativo, la tanto vantata trasparenza della sua prosa, a me sono sempre sembrate, qualcosa di assai meno positivo: secchezza, aridità, pedanteria, mancanza di spessore fantastico, di profondità verbale, di pluralità di senso”.
Sempre sul fronte della narrativa di casa nostra, ecco altre stilettate. Su Busi: “Disgraziatamente, volersi o credersi Hieronymus Bosch (o François Rabelais, o Louis-Ferdinand Céline, o tutti e tre insieme) non è proprio la stessa cosa che esserlo”. Il nome della rosa di Eco è “l’ingegnosa imitazione in legno di balsa o in polistirolo dei grandi romanzi che una volta si costruivano in pietre e mattoni”. Bevilacqua appartiene “al peggior dilettantismo, quello di chi non ha il coraggio d’essere un dilettante e cerca di nascondere la propria insipienza linguistica fingendo ambizioni che non ha”.
In Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro “non c’è pagina, ma che dico?, non c’è frase, non c’è parola (così come, d’altra parte, non c’è situazione o personaggio) del breve ma interminabile romanzo che non sia intrisa d’ovvietà, che non sia, anzi, l’ovvietà stessa fatta suono e grammatica”. Su Benni: “Certi scrittori che una parte non irrilevante della critica si ostina a considerare barocchi o neogaddiani a me sembrano soltanto mediocri falsari… Non c’è descrizione, frase, sostantivo o aggettivo o avverbio che, nella sua pagina, non siano lì per far ridere; e naturalmente, non ce n’è uno che faccia ridere”.
Raboni guarda anche fuori dai nostri confini e butta dalla torre due mostri sacri. Su Borges l’intemerata è di quelle epocali: “Mi è capitato spesso di pensare che dai futuri studiosi di letteratura il nostro tempo verrà ricordato, con grave e speriamo compassionevole stupore, come quello in cui si è potuto credere che Borges fosse un grande scrittore… un bel palloncino colorato si è trasformato in un pallone aerostatico, in una mongolfiera, in una balena volante”. Su Kundera, dopo il successo dell’Insostenibile leggerezza dell’essere (“spocchia aforismatica che solo in parte riesce a nascondere un sottofondo di banalità da Baci Perugina”), va giù duro: “Da grande scrittore di provincia si è trasformato in un mediocre, brillante scrittore cosmopolita”.
Infine un’incursione nel cinema, perché Raboni ha coraggio da vendere e demolisce due icone progressiste. Woody Allen “non è che un presuntuoso e logorroico specialista del niente, un discreto comico di varietà”. Nanni Moretti è bruciato in effigie: “Non amo il suo minimalismo, il suo frammentismo, il suo autobiografismo; detesto la sua studiata sciatteria formale, il suo rimanere al di qua, al di sotto di qualsiasi sintassi e di qualsiasi metafora. Questa sarebbe la coscienza critica della sinistra? Povera sinistra, povera opposizione, poveri tutti quanti”.