2 ottobre 2019
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Biografia di Abdon Pamich
Abdon Pamich, nato a Fiume il 3 ottobre 1933 (86 anni). Campione di marcia: oro olimpico a Tokio nel 1964, campione del mondo (1961), tre volte medaglia d’oro nella cinquanta chilometri ai Giochi del Mediterraneo (1955, 1963, 1971), due volte campione d’Europa (1962, 1966), quaranta volte campione d’Italia (13 nella dieci chilometri, 13 nella venti chilometri, 14 nella cinquanta chilometri) • «Alto 1,84 m per un peso di 74 kg, atleta dal passo ampio» (Sandro Aquari, Enciclopedia dello Sport, 2004) • «Tacco, pianta, punta» • «Ha marciato dalla Terra alla Luna, scrisse un quotidiano quando Abdon Pamich lasciò l’atletica. Fecero i conti, circa 400 mila chilometri tra gare e allenamenti. In realtà sono stati molti di più, nemmeno lui è in grado di ipotizzare una cifra vicina alla realtà» (Gianni Romeo, La Stampa, 2/10/2013) • «Della sua specialità, la 50 km, ha detto: “Si parte giovani, si arriva anziani, sembra di attraversare le stagioni dell’esistenza”» (Marco Pastonesi, Gazzetta dello Sport, 6/10/1999) • «Ma non nominategli la parola sacrificio abbinata allo sport, potrebbe arrabbiarsi» (Valerio Vecchiarelli, Corriere della Sera, 18/10/2013) • «Il “Campionissimo dal sorriso triste” e dal cuore colmo di nostalgia per la sua Fiume» (La Voce del Popolo, 25/5/2019)
Vita «E pensare che io alla marcia non ci pensavo. La mia passione era il pugilato. Mio zio era organizzatore e arbitro. Praticamente dall’età di cinque anni ho frequentato il mondo della boxe, e ne conosco tutta la storia» (Luigi Panella, la Repubblica, 3/2/2018) • Abdon nasce a Fiume quando la città è ancora italiana. È figlio di un commercialista • «Si dice che tra gli antenati ci fosse stato anche un doge. “Così pare. I nonni materni erano veneti, Salomon. Mio nonno paterno invece era di Albona. La famiglia veniva da Gimino, dove erano quasi tutti Pamich”» (Roberto Degrassi, Il Piccolo, 30/01/14) • «Dalla mia mamma ho imparato il senso del sacrificio, il valore dei sentimenti e dell’amicizia. L’educazione che si riceve in casa conta moltissimo, è l’esempio che educa. […] Papà […] mi ha trasmesso l’ottimismo: nonostante tutte le traversie, aveva uno sguardo di speranza sulla vita» (Laura Bellomi, Famiglia Cristiana, 20/5/2016) • L’adolescenza di Abdon, infatti, deve fare i conti con gli imprevisti della storia. «“Era bellissima Fiume: una città cosmopolita. Si viveva bene, ungheresi, italiani, croati. Per me non c’erano difficoltà. Poi è venuta la guerra, il disastro e il nostro esodo. […] Facevo la vita di tutti gli studenti. Studiavo, nuotavo, andavo in barca, in montagna. Facevo lunghe camminate, anche di 12 ore. La Fiume di prima del ‘43 era allegra, c’era tanta gente spiritosa, cantavano. Era una città aperta, perché sul mare. Si parlava ungherese, tedesco, croato e italiano ovviamente. Parlavamo anche il nostro dialetto, c’era un bel mix di culture. Gli Italiani erano la maggioranza ma non c’erano problemi di convivenza con gli altri” […] E poi? “Eh... poi le persecuzioni razziali, l’occupazione jugoslava, i sovietici, e l’esodo... con tutto quel che ne è derivato. Ma non hanno pagato solo gli italiani, non solo noi. E ho perso anche amici ebrei nei campi di concentramento, ad Auschwitz per esempio. Nelle Foibe per fortuna no”» (Maria Letizia D’Agata, Agi, 10/2/2019) • «A 13 anni scappai di casa. Io e mio fratello Giovanni, 14 anni. Tutti e due con i pantaloni corti. A Fiume c’era un clima stalinista, avevano chiesto l’opzione per confermare la cittadinanza italiana altrimenti ce l’avrebbero tolta, noi l’avevamo data, ma facevano ostruzionismo per evitare che tutti se ne andassero via» (Pastonesi) • «Mio padre era andato a Milano a cercare lavoro. […] Il mattino era scivolato via come tanti altri: ricordo un bel sole, l’ultima giornata al mare. […] Lasciamo la mamma, mia sorella e il fratello più piccolo, Raoul. Partiamo, a piedi. Arriviamo fino a San Pietro del Carso, cerchiamo di stare nascosti e attendere il primo treno diretto a Ovest» (Degrassi) • «Aspettammo tutta la notte. La mattina ci vide un poliziotto della Stella Rossa, finalmente arrivò il treno, prima che il poliziotto ci fermasse ci nascondemmo su un vagone, ma il treno si divise in due tronconi, e il nostro ritornava a Fiume. Intanto il poliziotto ci trovò: “Ve l’avevo detto di non salirci, adesso peggio per voi”. Di nuovo giù dal treno, cinque chilometri di corsa pazza sui binari, ma l’altro troncone era sparito all’orizzonte. Finché riuscimmo a unirci a un gruppo di triestini, ci chiusero in uno stanzone, ritirarono i documenti e ci chiesero le generalità. Siccome uno dei due poliziotti sapeva solo leggere e l’altro sapeva solo scrivere, c’infilammo sul treno senza che se ne accorgessero» (Pastonesi) • «Scendiamo a Divaccia. Nella stazione ci sono persone in fila con i permessi per andare a Trieste. Ci uniamo a un gruppo. Arriva il treno, chiamano i passeggeri e noi approfittiamo del trambusto per “imbucarci”, grazie alla complicità di una coppia di triestini che ci fanno passare per i loro figli. Arrivati a Trieste ci danno 500 lire, che per l’epoca era una sommetta. Non ho mai potuto ringraziarli» (Degrassi) • «Fu quella la gara più importante di tutte quelle che avrei affrontato dopo, al termine vinsi la medaglia della vita» (citato da Vecchiarelli) • Abdon e Giovanni girano diversi campi profughi: Udine, Milano, Novara. «Uno squallore indicibile. Non avevamo da coprirci, faceva freddo e il telo, la copertaccia, era di cotone. Non parliamo del mangiare, un anno solo a lenticchie e riso» (D’Agata) • «Ci sentivamo stranieri in patria […] venivamo etichettati come fascisti, ma sinceramente mio padre non aveva mai preso neanche la tessera del partito...» (a Panella) • «A Novara, le mamme, quando passavo per strada mentre andavo a scuola, dicevano ai figli: se non stai bravo ti faccio mangiare dal profugo» (D’Agata) • «Mio padre trovò lavoro a Genova e noi ci siamo stabilizzati in un piccolo paese in provincia. Il primo impatto non fu dei migliori. Fummo accolti con grande diffidenza: in quel piccolo paese l’unica struttura sociale era la sede del Partito Comunista, e noi venivamo visti come nemici. Eravamo alla vigilia del 1948, il clima era teso, e molti erano pronti a riprendere le armi sotterrate dopo la guerra per fare la “rivoluzione”. Col passare del tempo […] hanno capito che non eravamo dei facinorosi e soprattutto non eravamo dei fascisti in fuga […] I genovesi […] all’inizio […] si mostrano parecchio diffidenti, poi quando ti concedono la loro stima lo fanno in maniera limpida e leale» (a Andrea Titti, Lanterna, 10/2/2019) • «Ho ricominciato a fare sport, soprattutto nuoto e bicicletta […] Sentivo questa spinta dentro e poi il caso ha voluto che, a 18 anni, incontrassi la marcia. Mio fratello, al primo anno di medicina all’università, conobbe una matricola come lui, che praticava il lancio del giavellotto. Ci propose di andare nella sua palestra a fare un po’ di atletica. Visto che non c’erano marciatori, un vecchio allenatore ex marciatore, Giuseppe Malaspina, mi propose di fare la marcia» (a Alessandro De Vecchi, Zenit, 19/10/2014) • Malaspina era stato campione italiano, allo scoppio della guerra aveva dovuto rinunciare alle Olimpiadi. Per Abdon è un maestro. «Con lui mi confidavo più che con mio padre e curava tutti noi allo stesso modo. Ci raccontava la storia della marcia, ci entusiasmava. […] Aveva moglie e due figli, ma ogni anno ci seguiva negli allenamenti e nelle gare, rinunciando ai sabati e alle domeniche, senza mai prendere un solo centesimo. Mi insegnò il vero senso dello sport, a lui debbo la formazione fisica e mentale che mi ha permesso di ottenere risultati così prestigiosi» (De Vecchi) • «Alla prima gara, senza allenamento, fui doppiato. “Fra un mese vedrai”, mi disse Malaspina. Aveva ragione lui: un mese dopo vinsi» (Pastonesi) • «Era pelle e ossa, figura ascetica nel fisico e nei modi, riservato. “Con le persone mi trovavo più a mio agio quando ero in mutande…”. La marcia sembrava nel suo destino da sempre, ritagliata apposta per lui, lunghe camminate solitarie […] Fu la sua vita. “Due vite parallele se vogliamo, perché non smisi mai di lavorare: funzionario Esso, viaggiavo di notte e mi allenavo di giorno”. Ritorni economici? “Cambiamo domanda, per favore. Mi promisero 50 mila lire, a un certo punto. Non le ho mai viste… Però ho fatto a tempo a prendere due lauree, psicologia e sociologia, e ho vissuto come più mi piaceva”» (Gianni Romeo, La Stampa, 2/10/2013) • «Quando abitavo a Genova, uscivo da casa in canottiera e calzoncini, da San Martino a Sturla, l’Aurelia fino a Recco, poi su a Uscio, 10 chilometri di salita. Potenziamento. E ritorno. Totale: più di 50 chilometri. Al tramonto nei giorni di lavoro. All’alba il sabato e la domenica. E all’alba, tutte le albe, in una curva verso Sori, sentivo una vocina: “Pamich”. Ma non vedevo mai nessuno. Come se qualcuno mi chiamasse e poi si nascondesse. Uno scherzo, pensavo. Un’alba, al solito “Pamich”, mi fermai, cercai e trovai: su una veranda, in una gabbietta, c’era un pappagallo. Mio tifoso» (Pastonesi) • Nel 1956 partecipa alla Praga-Podebrady: «“a quel tempo era una specie di campionato del mondo della 50 km. Quando partii, mi dissi: se trovi un posto tra i primi quindici, puoi esser soddisfatto. Vinsi” […] Qualche mese dopo Pamich finì quarto all’Olimpiade di Melbourne. In un pomeriggio torrido di Roma ‘60 strappò la medaglia di bronzo. […] Era qualcosa, non era quello che voleva» (Giorgio Cimbrico, Il Fatto Quotidiano, 14/10/2013) • «Ero pronto a spaccare il mondo» (Romeo) • «Dopo i Giochi di Roma, la marcia dell’atleta fiumano diventa inarrestabile. Quattro stagioni mirabili, primati mondiali sui 50 chilometri e sulle 30 miglia nel novembre 1961 sulla pista dell’Olimpico, titolo europeo nel 1962 a Belgrado» • Nel 1964 è in Giappone, è la sua terza Olimpiade: «stava andando tutto per il meglio, quando ad un rifornimento bevo un thè freddo che mi fa venire una crisi intestinale» (a Panella) • «In fuga con l’inglese Nihill dovette fermarsi in preda a violenti dolori addominali, colpa di un’intossicazione alimentare. […] “Era impossibile uscire dal circuito transennato, feci quello che dovevo fare sotto gli occhi degli spettatori giapponesi. Prima erano perplessi, quando ripartii mi applaudirono…”» (Romeo) • «La sua leggendaria “fermata” per liberare gli intestini» • Eppure, si riprende e vince la medaglia d’oro • «Successo quasi fantozziano» (Romeo) • «In un attimo lo fece transitare dalla rabbia all’estasi della trasfigurazione. Aveva atteso e il suo giorno era arrivato. “[…] Pensi che, dopo quasi mezzo secolo, neppure in Giappone mi hanno dimenticato: quando il mese scorso Tokyo ha vinto la corsa ai Giochi del 2020, […] uno dei loro quotidiani mi ha telefonato per chiedermi cosa pensassi dello spirito sportivo dei giapponesi. Mi è venuto da sorridere: a dire il vero, quel giorno avevo altro a cui pensare”» (Cimbrico) • «Sul percorso lasciò 4 chili di peso» (Romeo) •
Maturità Partecipa a altre due Olimpiadi, senza successo. A Monaco ‘72 è il portabandiera dell’Italia • «Come ha fatto a coniugare il lavoro con l’atletica? “Ho sempre lavorato anche negli anni in cui ho partecipato alle Olimpiadi. Mi allenavo prima o dopo il lavoro. Ho dovuto prendere le ferie alla Esso per partecipare alle Olimpiadi di Tokyo nel 1964. Sono stato per tanti anni l’unico rappresentante della Esso nell’atletica. Poi nel 1977 sono andato alla Fincantieri e dopo che Prodi, quando era presidente dell’Iri, la sciolse, fui mandato alla Sip dove rimasi fino alla pensione”» (De Vecchi) • A ottant’anni partecipa ancora a allenamenti e gare amatoriali: «Non bisogna essere sportivi solo per una stagione, ma per tutta la vita» (ibidem)
Carattere «Se non c’è la disciplina, non si arriva a nulla» (citato da Silvia Pedemonte, Il Secolo XIX) • «Gli anglosassoni hanno una bella etichetta per quelli come Abdon Pamich: vecchi fusti. Nel senso di fusto dell’albero che tempo e inclemenze non riescono a piegare. É una questione di buone fibre: i fiumani, gli zaratini, quelli delle isole e della terraferma, ce l’hanno e ne sono orgogliosi […] Alto e diritto, è sempre stato un tipo austero: se gli incroci della vita lo avessero portato a imbattersi in Ingmar Bergman, gli sarebbe stata garantita una parte di pastore di anime, di capofamiglia con il culto del lavoro in una fattoria del Nord silenzioso. Dentro, sempre una grande forza e la capacità di attendere, di non arrendersi» (Cimbrico) • «Il risultato ha rappresentato per me un punto di partenza e non di arrivo. […] Finita una gara, pensavo già alla successiva, e tanto peggiore era l’esito tanto più attendevo con impazienza la possibilità di mettermi alla prova, unico avversario da battere, me stesso, perché innalzare i propri limiti è molto più importante che vincere» (a Augusto Frasca, Il Tempo, 07/10/2010)
Vita privata Sposato con due figli: Tamara, medico dello sport; Sennen, ex tennista oggi manager • Nonno di due nipoti ormai ventenni • Vive a Roma.
Esule «De Gasperi scelse l’Alto Adige dove sono tedeschi, non l’Istria italiana» (lui, a Cimbrico) • Su Fiume: «È la mia città della memoria e il mio compito, così come quello delle generazioni future è quello di tutelarla e fare in modo che non finisca tutto con noi anziani» • Sui campi profughi: «Era terribile, mi si chiede un paragone con i centri per l’immigrazione di oggi. È una forzatura. Lascerei perdere. A parte il fatto che ora, credo che i letti li abbiano ed è un po’ meglio rispetto a noi che dormivano nei sacchi con dentro i gambi del granoturco per materasso» (D’Agata) • Sull’essere esule: «Non mi sono mai sentito diverso dai miei compagni. Lo sport appiana tutte le differenze» (citato da Titti) • Sul dopoguerra: «Quando marciavo nel ‘52, ero contento perché sui giornali c’era scritto “vince il fiumano Pamich”, era soddisfazione quella! Ma tanto non si poteva parlare, nessuno credeva alle nostre vicende» (D’Agata) • Sulla questione oggi: «Non voglio certo che Fiume torni all’Italia, sarebbe un’utopia, ma che almeno si riconosca quello che è stato» • «La storia più la si diffonde e meglio è» (a Panella) • Ogni anno dà il via alla corsa del ricordo, nel quartiere giuliano-dalmata di Roma.
La marcia «Pratica francescana dello sport, per dannati della strada e fachiri della fatica, durante la quale un atleta torna spesso bambino con la voglia di piangere» (Il Tempo, 7/10/2013) • «La marcia educa al silenzio, e perciò ai suoni, anzi, ai fruscii e ai sussurri. La marcia educa alla solitudine, all’autonomia, alla pazienza, alla perseveranza, alle rinunce e allo spirito di adattamento. Tanto spirito di adattamento, però, alla fine, forse nella vita mi ha fatto più male che bene. La marcia educa a pensare. Però quando finalmente la mente cominciava a marciare per conto suo, le gambe rallentavano. La marcia educa a guardarsi dentro. Ma siccome per dedicarsi alla marcia bisogna già avere un certo carattere - riflessivo, introspettivo, silenzioso - la marcia te lo accentua. Cioè: te lo peggiora» (lui a Pastonesi)
Curiosità È stato psicologo della nazionale di pallamano • Ha conosciuto quattro papi: Pio XII, Paolo VI («una volta annunciò la mia vittoria alla Roma-Castel Gandolfo durante l’Angelus»), Giovanni Paolo II («ha battezzato mia nipote») e papa Francesco («È più campione di me: marcia verso grandi traguardi umani e spirituali») • «Parliamo di Alex Schwazer? “Tanti atleti oggi sono più fragili di un tempo, la paura della sconfitta li porta a fare cose sbagliate. Non giudico, ognuno è sempre solo con se stesso e con la propria coscienza”» (Gianni Romeo, La Stampa 2/10/2013) • «Non ho mai chiesto al Signore di farmi vincere, non mi sarei permesso» (alla Bellomi)