all’Accademia dei Lincei (4 ottobre — 12 gennaio 2020), realizzata sotto l’alto patronato del presidente della Repubblica, a cura di Roberto Antonelli e Antonio Forcellino.
Qui, nella Villa Farnesina affrescata da Raffaello, si cercherà di approfondire il passaggio del genio di Vinci nella città dei papi, che avviene tra il 1513 e il 1517, prima dell’ultimo, definitivo trasloco in Francia, dove l’artista muore 500 anni fa. «Tutto fa pensare che la Gioconda di Roma sia uscita dallo stesso atelier di Leonardo», dice Cinzia Pasquali, la restauratrice ufficiale dei capolavori leonardeschi del Louvre, che la scorsa estate ha lavorato anche su questo quadro mai visto. «L’opera, molto tempo dopo la sua esecuzione, è stata trasportata dal legno, su cui Leonardo lavorava, alla tela e questo per noi è un elemento importante. La resa resta impressionante, nonostante l’impoverimento e i danni subiti. Il materiale con cui è stata eseguita e le dimensioni sono compatibili con il dipinto del Louvre: sembra del XVI secolo. Non solo: la superficie inferiore abrasa mostra pentimenti abbastanza simili all’esemplare di Parigi». Guardando le riflettografie, i ripensamenti sulla posizione delle dita della mano sinistra sono gli stessi. «È un oggetto molto bello, ma non è Leonardo. Però può aiutarci a capire qualcosa di più su di lui», puntualizza Pasquali.
Riavvolgiamo il nastro della storia, allora. Leonardo, tra il 1513 e il ’17 è a Roma con la Gioconda numero 1: continua a modificarla e con lui un allievo non identificato della bottega allestita al Belvedere, in Vaticano, la copia e la aggiorna seguendo il maestro. Proprio come accade con un’altra Monna Lisa, quella del Prado di Madrid, restaurata nel 2010 e attribuita di volta in volta a Francesco Melzi o al Salaì, eredi del genio rinascimentale. Di certo, sin dal principio, quello della Gioconda non è un ritratto come tanti, se l’artista lascia che si replichi quasi "in diretta" e finisca poi per portarlo con sé in Francia, senza consegnarlo mai a un ipotetico committente.
Ma qual è l’origine della Gioconda romana? A recuperarla per la mostra dei Lincei è stato il curatore Antonio Forcellino. «Se ne erano dimenticati tutti — spiega — Si trovava nella sala del questore della Camera, dentro una cornice ottocentesca. Era considerata una crosta, evidentemente. Eppure, nelcommento all’edizione delle Vite di Vasari stampato da Felice Lemmonier nel 1851, si fa riferimento a questa come a un’eccellente copia ». In quel momento, a metà Ottocento, il quadro è nella collezione Torlonia; la famiglia lo dona allo Stato italiano nel 1892. Ma, risalendo all’indietro nel tempo, l’inglese Jonathan Richardson, già nel 1721, descrive una Gioconda nel romano Palazzo Dal Pozzo, addirittura come opera dello stesso Leonardo. Sul telaio c’è ancora incollato un foglio scritto in francese in grafia settecentesca che fa riferimento al trasporto della pittura dalla tavola alla tela.
«Oggi la Gioconda Torlonia ci permette di leggere meglio quella del Louvre che è intoccabile — dice Forcellino — Vale soprattutto per il paesaggio. Se in quella del Prado appare semplificato, in questo caso è sovrapponibile al tipo di Parigi. E il restauro chiarisce che nella parte sinistra quello che al Louvre sembra un sentiero polveroso è in realtà un fiume che innaffia un terreno arido. La Gioconda, nata come un ritratto, alla fine diventa una grande allegoria della fertilità, è un’icona simbolo della natura». Forcellino si spinge a dire che la mano del maestro possa essere intervenuta anche sull’esemplare romano: «La tecnica pittorica con cui è realizzato l’incarnato è impalpabile. Non vedi le pennellate — continua — Non si conoscono altri pittori a cui possiamo attribuire una resa dello sfumato così. Sul fatto che l’abbia toccata Leonardo si può discutere. Questo è un quadro pubblico, non dove essere venduto sul mercato».
Il 29 e il 30 novembre gli studiosi leonardiani di tutto il mondo arriveranno ai Lincei per confrontarsi sull’argomento. Ma anche sul capitolo ancora tutto da scrivere degli anni romani di Leonardo, dove le influenze reciproche con Raffaello e Michelangelo sono da approfondire. Secondo lo storico dell’arte tedesco Frank Zöllner, è qui che il maestro avrebbe concepito l’idea del San Giovanni e del Bacco del Louvre e di quel Salvator Mundi, il cui esemplare più noto e controverso è sparito lo scorso anno, dopo essere stato acquistato dal principe saudita Mohammed Bin Salman come l’opera più costosa del mondo: 450,3 milioni di dollari. Dove c’è un Leonardo c’è un mistero. Il sorriso di Monna Lisa conferma. Adesso anche dal Lungotevere.