Avvenire, 2 ottobre 2019
Troppo inglese nella manovra
Premessa: sono suicide le battaglie di retroguardia contro l’ingresso dell’inglese in un Paese che avrebbe bisogno come del pane di trasmissioni tv nell’idioma di Shakespeare o di più corsi universitari non in solo italiano, per colmare un forte svantaggio competitivo linguistico. E suonano comici alcuni tentativi di tradurre parole straniere ormai entrate nell’uso comune. Ma la giusta misura, si sa, è sempre difficile da raggiungere. E così lunedì sera, nella conferenza stampa di presentazione della nota di aggiornamento del Def e nei notiziari tv che ne davano conto, si è assistito a un proliferare di espressioni inglesi, utilizzate dal premier Conte e dal ministro Gualtieri,che avrebbero steso anche i più accaniti fan della Regina d’Inghilterra. Dal Family act (legge quadro sulla famiglia), a tax expenditures (agevolazioni fiscali), da fiscal stance (posizione di bilancio aggregata) a green new deal (svolta verde), da green bond (Bot verdi) a cashback (restituzione monetaria) fino a golden share (poteri di controllo), nessuno dei termini citati pareva indispensabile, avendo un semplice corrispettivo nella nostra lingua. Spesso l’inglese ha un vantaggio di sintesi e chiarezza: spread è imbattibile da differenziale. Ma poi bisognerebbe essere coerenti. La spending review è banalmente revisione della spesa. Se si usa l’espressione straniera, poi facciamolo bene: non si può abbreviare in ’spending’, gli anglosassoni ridono. Inglese sì, ma ben insegnato nei luoghi giusti. La politica resti comprensibile a tutti in buon italiano.