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 2019  maggio 25 Sabato calendario

Da "La verità degli altri" di Giancarlo Bosetti (Bollati Boringhieri)

Nel caldissimo ferragosto castigliano del 1550, nella cappella del Convento di San Gregorio, a Valladolid, facevano ingresso quattordici illustri notabili e sapienti per dirimere la disputa sulle Indie e ascoltare un duello oratorio che sarebbe durato sei giorni, tra Juan Ginés de Sepúlveda, precettore latino del principe ereditario Filippo, e Bartolomé de Las Casas, vescovo del Chiapas. Quella che si riuniva era la cosiddetta "Junta", voluta da Carlo V, imperatore asburgico e insieme Re di Spagna.
Erano passati 58 anni dal primo sbarco di Cristoforo Colombo oltreatlantico, il grande caso delle malversazioni spagnole era aperto e ad aprirlo era stato quel vescovo, Bartolomé. Aveva cominciato da trentaquattro anni una implacabile campagna contro la schiavitù degli Indios e la guerra immotivata contro di loro. Las Casas considerava questo lo scopo principale della sua esistenza e la missione a cui era chiamato in quanto cristiano.
L’azione contro il sistema delle encomiendas (le concessioni di territori e popolazioni native ridotte in schiavitù) e dei repartimientos (spartizione degli indios come bestie senza nessuna considerazione per le loro famiglie) intaccava posizioni acquisite, cui nessuno era disposto a rinunciare. La collera furibonda contro questo religioso che appariva una minaccia sovversiva per gli insediamenti creati nel nuovo mondo era moltiplicata dalla beffa che il nemico era stato "uno di loro". Gli encomenderos aspiravano alla ereditarietà dei titoli di proprietà affermati nei fatti e tempestavano la Corte di proteste contro la balorda campagna orchestrata da questa menzognera creatura, di cui si giunse a dire che fosse "subornato dal diavolo".

Ora, a Valladolid, nella disputa che stava per cominciare, Sepúlveda, l’avversario, cercava di mettere a frutto il malcontento e di dargli un colpo finale sul piano teologico. Ma Las Casas era un osso durissimo, non solo per la sua tenacia e sottigliezza. Aveva tessuto alleanze tra gli ordini religiosi, coltivato amicizie, mantenuto sempre i collegamenti con l’imperatore. La "inferiorità" degli Indios era moneta corrente nelle colonie e lui sapeva bene quanto fosse difficile sradicare un presupposto di senso comune su cui si reggeva l’ordine delle encomiendas. La prima fase della Conquista, Bartolomé lo aveva scritto al Re, aveva già sterminato milioni di homunculi: nella sola isola Hispaniola c’erano al momento dello sbarco dell’Armata di Cortès tre milioni di abitanti, quasi tutti scomparsi. In tutte le Indie le vittime erano tra 12 e 15 milioni di persone.

Mentre Sepúlveda sta ancora parlando degli Indios come naturalmente destinati alla schiavitù a causa della loro inferiorità, Bartolomé sa che gli indigeni delle Americhe erano per il suo accusatore l’equivalente di materie prime, ma sta aspettando gli argomenti più pesanti, su idolatria, sacrifici umani e cannibalismo. E soprattutto lo aspetta al varco di un errore, che potrebbe costare caro all’accusa, quello che riguarda le motivazioni reali della Conquista da parte degli spagnoli. E l’aristotelico a un certo punto si lasciò scappare l’argomento "sbagliato": l’ammissione della vera natura delle spedizioni, mentre al nostro vescovo sfuggiva un sorriso di soddisfazione, come quando l’avvocato nel processo vede la porticina che apre la strada al suo trionfo legale. Nella foga oratoria escono dalla bocca di Sepúlveda queste parole: se si volesse mandare là della gente per la predicazione e per proteggere i predicatori, "non si troverebbe nessuno neanche a trenta ducati al mese, perché la gente ci va e rischia la vita per il profitto, per le miniere d’oro e d’argento e per l’aiuto degli indios". Voilà. Il motore della Conquista armata è anche per Sepúlveda ben diverso dal suo fondamento giuridico: l’evangelizzazione.

Il punto chiave della replica è già pronto nella testa di Bartolomé e lo userà a piene mani: da una parte oro, argento e servitù degli indios, dall’altra gli obiettivi evangelici e civilizzatori, estirpare l’idolatria e i vizi, agire perché non impediscano la predicazione e si convertano, e non ricadano in idolatrie ed eresie e perché nel rapporto stabile con gli spagnoli si confermino nella fede e perdano riti e costumi barbarici. I coloni non vanno nelle Indie per l’amore di Dio o per lo zelo della fede, né per salvare il prossimo o servire il Re, del che si vantano per falsità, ma per cupidigia, per spadroneggiare sugli indios, per dividerseli come bestie in affidamento perpetuo tirannico infernale, vanno là "per appoderarsene".

E sui sacrifici umani e sul cannibalismo pensò una risposta che avrebbe segnato la sua vittoria e che parla ancora alla nostra coscienza di oggi: i sacrifici umani degli indios non rappresentavano un’eccezione rispetto alla storia della religione a noi più nota, sono sempre esistiti (Abramo era pronto a sacrificare Isacco). Agli esempi, numerosi, dell’Antico Testamento, aggiungeva gli insegnamenti del Nuovo: il sacrificio di Gesù ad opera del Padre al centro del messaggio evangelico. Ma a queste analogie, Las Casas fa seguire il passaggio decisivo: i pagani delle Indie pensavano di far piacere a Dio e "la loro ignoranza è scusabile poiché essi non conoscono la legge soprannaturale della grazia, ma soltanto la legge naturale che è ancora nebulosa".
Per il vescovo del Chiapas si tratta di "pagani semplici e miti" con i quali Cristo ha ritrovato pecorelle smarrite, se le è messe in spalla e ora dovrebbe essere - domanda ironica verso Sepúlveda - "contento di vedere i Suoi discepoli che si scagliano a colpi di lancia e di spada contro questa gente che non ha mai ricevuto la fede e non ci ha fatto alcun male"? Per Las Casas le due "realtà nere" non sono equivalenti perché il sacrificio umano è un delitto religioso, mentre il massacro degli indos inermi è un delitto contro Dio, e se per Sepúlveda la salvezza di una sola anima vale tante morti innocenti, per Las Casas la morte di un solo uomo ha maggior peso della sua salvezza.

Sono atteggiamenti con i quali Las Casas sfidava l’intero suo tempo. Di lui, domenicano, il francescano Toribio de Benavente, detto Motolinìa, scriveva all’imperatore che non se ne poteva più e girava per raccogliere tutti gli scritti di quel "vescovo rissoso" in modo che non avessero a nuocere all’anima di alcuno e ne faceva roghi, ad majorem Dei gloriam. E non si dimenticava di insinuare che nei suoi territori si metteva molta più cura nello scomunicare uno spagnolo che nel convertire un indio. "Così va a finire la fede annacquata di chi troppo onora la fede altrui". Le consuete accuse di viltà e tradimento dei "nostri" sacri valori da parte di chi scuote il naturale etnocentrismo di ogni cultura.