Tuttolibri, 7 settembre 2019
Su "Remoria. La città invertita" di Valerio Mattioli (minimum fax)
Avevamo bisogno di un libro come Remoria. Avevamo bisogno di un saggio narrativo biografico e autobiografico che in una forma pretenziosa e bislacca, generosissima e pretestuosa, digressioni continue e intuizioni davvero illuminanti, potesse cercare dal lettore non solo attenzione, condivisione, riflessione, immedesimazione; un testo che sì ci attirasse in un lungo ed erratico viaggio nell’immaginario oscuro, iniziatico, dionisiaco, inumano su Roma (soprattutto quella a cavallo tra gli anni ottanta e gli anni zero), ma che chiedesse soprattutto amore: grazie alla sincerità letteralmente sconfinata con cui Valerio Mattioli finalmente racconta questa città.
Sclerotizzata dalle sue retoriche passatiste o ultimative, dalla Grande Bellezza a Sacro Gra, dalle gallerie quotidiane delle montagne di rifiuti alla pervasiva parodia che impazza in ogni autorappresentazione nazionalpopolare, i fasti dell’impero che fu, del suo essere caput mundi, romanzi criminali e suburre, Roma ha come opacizzato il suo gemello potenziale, l’urbe che sarebbe stata se invece di Romolo il fondatore fosse stato Remo, la post-utopia che potrebbe ancora diventare. Romulia ha occultato Remoria, è tempo di vendicarla.
Mattioli compie un gesto di struggente hauntologia (come direbbe uno dei suoi mentori, Mark Fisher, di cui è tra i migliori esegeti italiani), una caccia ai fantasmi, della sua – e nostra – infanzia e adolescenza, ai rimossi, alle possibilità che Roma non ha avuto. C’è una città scoperta e conquistata per gioco, per resa, a cui si appartiene per esclusione, di cui si diventa adepti più che cittadini: la Roma degli accattoni, dei tossici, dei borgatari, dei rimastini, dei punk, dark, dei coatti, degli amici delle elementari che giocano con il protagonista a golf con le siringhe in un pratone, di quelli che scoprono le sostanze agli illegali (i rave anni novanta nei capannoni sconosciuti); il dolcissimo scivolare dall’ecstasy alla ketamina in una delle pagine più belle mai lette sull’amore per la sperimentazione chimica. C’è soprattutto una Roma gelida che si contrappone alla Roma caciarona, calda, infernale, coloniale che sembra l’unica possibile idea della città oggi. Mattioli non risparmia nulla e non si risparmia in questo rito iniziatico, in cui la prima tappa è l’autoannullamento (ogni movimento è un ritorno, alla casa dell’infanzia che non c’è più, nella borgata dove non si conosce più nessuno, nel vorticare interminabile dell’ouroboros del Raccordo Anulare). Alla nostra capacità di abbandonarci corrisponde un disvelamento, secondo una logica lisergica o misterica. «A emergere prepotente è il carattere cultuale di una borgata sfera che, alla disfatta del riflusso, reagisce con una proliferazione di sette, di percorsi iniziatici, di sottoculture che sono al contempo società segrete e manifestazioni esteriori di alterità. È un’alterità dalla vocazione minoritaria e tribale perché minoritaria e tribale è per definizione qualsiasi sottocultura, e marginale per precisa e cosciente scelta. Nessuna legittimità viene accordata al centro».
Per questo è quasi scorretto dire cosa si impara da un libro del genere – anche se Remoria è un accumulo di meravigliose storie e controstorie, esegesi di urbanistica, musica, cinema, fumetto: su Amore tossico e Salò di Pasolini, su Ranx Xerox, su Torazine, sulla genesi del Grande Raccordo Anulare o della metro A fino al bellissimo microsaggio sul coatto – ma sarebbe più giusto provare a condividere come si esce dal trip di Remoria.
Con la spietatezza del sopravvissuto, Mattioli riesce a disegnare dagli anni ottanta a oggi, sgomberi dei centri sociali e G8 di Genova, il lungo susseguirsi di stagioni di riflusso, seguendo le peregrinazioni tra i simboli di una città infera (la Vela di Calatrava, il Casilino 900, il centro di permanenza di Ponte Galeria), ma a anche a indicare come in ogni inabissamento, in ogni presa a male si direbbe, resta qualche residuo di polvere pirica che si può incendiare per casi imprevisti. Solo dopo aver attraversato le lande di Remoria, sembra avvertirci Mattioli (nell’ultima parte la sua credibilità di sacerdote del culto di Remoria se l’è conquistata) possiamo disfarci definitivamente dei discorsi paternalistici, colonialistici, sulla periferia, periferia da recuperare o riqualificare, periferia dell’emergenza abitativa, degrado e decoro, e capire come il retto e il verso si identificano e si combattono in una lotta inesausta, la città di sopra e quella di sotto: «Spazio e città sono la stessa cosa. Remoria rettifica: città è nomadismo, non appartenenza, instabilità, eterna diaspora senza punto d’origine». E riemersi nella luce quotidiana, continuare a tramandare le storie di questa eterotopia romana, senza la quale non sarebbe nato nemmeno il racconto della nostra civiltà.