il Fatto Quotidiano, 1 ottobre 2019
Storia dell’Iva
In 46 anni dalla sua entrata in vigore se ne sono viste di tutti i colori. E non potrebbe essere altrimenti anche oggi visto che l’Imposta sul valore raggiunto (Iva) è uno degli strumenti preferiti dai governi per far cassa e dalla sua nascita, l’aliquota ordinaria è quasi raddoppiata passando dal 12 al 22 per cento. Nel 1987 fu persino oggetto di uno scontro con Bruxelles che obbligò l’Italia ad abbassare l’Iva sullo champagne per allinearla a quella del prosecco.
Per coerenza ci fu chi domandò una sforbiciata anche all’imposta sulle ostriche, che correvano il rischio di essere classificate come prodotto di lusso con Iva al 38%. Toccò poi agli artisti che chiesero Iva “leggera” per le opere d’arte vendute in galleria. Infine, in tempi più recenti, è stato il turno degli assorbenti che, secondo una proposta di Possibile, dovrebbero averla al 5 % e non al 22. Proposta respinta dalla Ragioneria dello Stato per i 300 milioni di costo per le casse pubbliche.
Difficile trovare soldi per ridurre un’imposta con un gettito 2018 da 109 miliardi e con un meccanismo tutt’altro che progressivo: l’Iva è infatti una tassa pagata dal consumatore finale, che resta con il cerino in mano e non può scaricarla in alcun modo.
Dalle origini è stata strutturata su tre scaglioni per “modularne” l’effetto. Originariamente c’era un’aliquota sui beni di lusso, che negli anni 80 era al 38%. Poi è scomparsa e sono rimaste tre fasce: beni di prima necessità (4%), agevolata (10%) e ordinaria (22%). Ancora a fine anni 80 si ipotizzava che avrebbe dovuto allinearsi all’interno dell’Unione. Perché “è impensabile aprire le frontiere alle merci in presenza di prodotti tassati in maniera fortemente diseguale” spiegò il vicepresidente della Commissione, Lord Francis Arthur Cockfield nel 1987. Invece, nel tempo si è trasformata nella spada di Damocle che pende sulla testa di ogni governo italiano, specie dal 2011. Come è potuto accadere? Con la tecnica della quadratura dei conti a breve per ottenere il benestare di Bruxelles alla legge di Bilancio. Un’operazione che, in buona sostanza, si trasforma in una serie di promesse di tagli e rincari. È in questo quadro che nascono le clausole di salvaguardia, meccanismi di incremento automatico dell’Iva nel caso in cui il Paese manchi gli obiettivi di bilancio.
È stato il ministro Giulio Tremonti, nel bel mezzo della crisi che poi fece cadere il governo, a mettere le basi per un compromesso con l’Ue. Il 5 agosto 2011 i vertici entranti e uscenti della Bce inviano a Roma una lettera di fuoco in cui, secondo quanto riferirà poi il professore di Sondrio, si vincola l’acquisto di titoli di Stato italiani in piena febbre dello spread al varo di una serie di misure da parte del governo. Per uscire dall’angolo, l’esecutivo Berlusconi decide di impegnarsi a coprire 20 miliardi di spese già in bilancio entro settembre 2020 con una sforbiciata alle agevolazioni fiscali o, in alternativa, con un aumento dell’Iva.
A detta di Tremonti, la clausola è priva di valore giuridico perché non ci sono effetti vincolanti e specifici. Fatto sta che a Bruxelles la prendono seriamente. Caduto il governo Berlusconi, Mario Monti dà attuazione alle clausole con tagli alla spesa previdenziale, Imu e incrementi Iva dal 2013. Concretamente, il primo ritocco dell’imposta (da 21 al 22%) arriva con il governo di Enrico Letta che promette alla Ue nuovi aumenti Iva e tagli ad agevolazioni e detrazioni per assicurare maggiori entrate fra il 2015 e il 2017 per un totale di 20 miliardi. Non è da meno il governo Renzi che con la stessa tattica fa lievitare il conto finale. Così quando Paolo Gentiloni arriva a palazzo Chigi può solo disinnescare le clausole 2018 e ridurre in parte quelle 2019 passando la palla governo Conte, che, nella prima versione, amplia ancora i ritocchi all’insù di Iva differiti. Il risultato? Dei quasi 30 miliardi di aumenti futuri un terzo è riconducibile all’eredità di Letta, un terzo a Renzi e un terzo a Conte.