Corriere della Sera, 1 ottobre 2019
Un tranello per Paolo VI
Valenze oscure, menzogne reiterate, opacità inconfessate e inconfessabili. Queste le caratteristiche dell’«accelerazione violenta» che agli inizi del 1968 – ai tempi di Papa Paolo VI, vittima probabilmente inconsapevole di questa manovra – portò all’allontanamento del cardinale arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro e alla sua sostituzione con Antonio Poma. Giuseppe Dossetti fu il primo a definire quella di Lercaro una «rimozione». E Rimozioni. Lercaro. 1968 è adesso il titolo di un intrigante libro (di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino) dedicato da Alberto Melloni alla complessa vicenda di cui si è testé detto. Perché quel plurale, «rimozioni»? Apparentemente il saggio si occupa soltanto della destituzione di Lercaro. Poi, però, pagina dopo pagina, Melloni allarga il discorso alla «rimozione della rimozione», cioè a come i veri significati di quell’affaire furono progressivamente avvolti in una coltre di nebbia. Fu la Chiesa, senza ombra di dubbio, a volere che la storia di quella violenza consumata ai danni del cardinal Lercaro fosse «silenziata». E la «rimozione della rimozione» fu resa possibile «dalla decisione della vittima di tacere, nella (vana) attesa che chi aveva architettato quella manovra uscisse allo scoperto e che chi aveva il dovere di scoprirlo individuasse i colpevoli». Dopodiché la «rimozione della rimozione», fu facilitata «dall’abilità con cui vennero seminati diversivi, depistaggi, calunnie, allusioni» attorno a quell’«evento lacerante». E alla fine la «rimozione della rimozione» fu corroborata storiograficamente «dalla riduzione della rimozione stessa a frammento della storia del Pci o a capitoletto dell’eccezionalismo migliorista bolognese». Seppellita oltretutto «da quintali di dettagli che», sostiene Melloni, «non fanno un grammo di storia».
Adesso nuove carte (e l’indiretto incoraggiamento di Papa Francesco) «permettono e forse impongono di ricostruire più accuratamente» l’avvicendamento tra Lercaro e Poma di oltre cinquant’anni fa. Melloni fa notare che «nel momento in cui quel “delitto” si compiva era passata una dozzina d’anni da quando un’altra Chiesa – quella di Firenze – si era trovata ad essere l’ossessione» di quegli stessi «ambienti ecclesiastici romani abituati a ritenersi onnipotenti». Anche allora era stato messo nel mirino un cardinale, Elia Dalla Costa, autorevole al punto che nel conclave del 1939 avrebbe potuto contendere la tiara a Eugenio Pacelli (Pio XII). A metà anni Cinquanta finì nel mirino del mondo pacelliano un giovane prete, don Lorenzo Milani, diventato «il parafulmine e la vittima designata della ferocia istituzionale» della Chiesa di Roma. In quell’occasione, assieme a don Milani, fu travolto l’intero «chiostro dei folli di Dio» radunato attorno alla carismatica figura di Dalla Costa. Poi, tra il 1967 e il ’68, la tempesta si abbatté sulla Chiesa di Bologna «vittima designata» a causa del «protagonismo oggettivo» dell’arcivescovo «uscito dal Concilio con un’aura che dava autorevolezza alla sua idea secondo cui le Chiese locali dovevano porsi come ermeneute della riforma conciliare». Stavolta non ci fu un don Milani su cui riversare l’aggressività romana, e i fulmini si abbatterono direttamente sul cardinal Lercaro, che era un esponente della parte più progressista del clero italiano. Progressista sì, ma aveva fatto il suo «dovere» nella battaglia contro il Pci al punto che nel 1956, per intercettare le sensibilità di sinistra, aveva imposto al recalcitrante Giuseppe Dossetti di candidarsi a sindaco di Bologna contro il comunista storico Giuseppe Dozza. Dossetti accettò e, come era nei pronostici, perse: Lercaro sentenziò che con l’elezione di Dozza la città si era voluta «sbattezzare». In seguito Lercaro svolse un ruolo assai importante nel Vaticano II e quando nel dicembre 1965, terminati i lavori conciliari, tornò a Bologna, Dozza andò ad accoglierlo alla stazione a testimoniargli il riconoscimento della città (e forse anche del Pci) per il ruolo da lui avuto in quelle assise.
Da quel momento l’arcivescovo di Bologna, con il suo supposto spostamento a sinistra, divenne (probabilmente senza accorgersene) il pretesto per il duro conflitto del dopo Concilio tra coloro che volevano che tutto cambiasse e quelli che auspicavano un riassorbimento delle novità. Nell’aprile del 1967 fu dato alle stampe uno strano libretto del tradizionalista Tito Casini, La tunica stracciata. Lettera di un cattolico sulla «Riforma liturgica» (Sates), in cui Lercaro veniva accusato d’aver fatto alla Chiesa addirittura più danni di Lutero. Colpiva che la prefazione al pamphlet fosse stata scritta da un cardinale, Antonio Bacci. Strano segnale. In quell’occasione, Paolo VI – preoccupato che, scrive Melloni, Lercaro potesse «ritenerlo ispiratore o corresponsabile dell’attacco di Bacci» – espresse «in modo pubblico e plateale» la sua solidarietà all’arcivescovo di Bologna. E parve che tutto dovesse fermarsi qui.
Ma non fu così. Se c’era un giornale all’epoca caro all’arcivescovo di Bologna questo era «L’Avvenire d’Italia» diretto (da cinque anni) da Raniero La Valle. Il quotidiano aveva difficoltà economiche e Paolo VI decise di «lasciarlo morire». Lercaro cercò di ottenere aiuti per «L’Avvenire d’Italia» che, «proprio per la funzione di supporto alla maggioranza riformatrice», si era fatto nel mondo cattolico molti nemici che ne auspicavano la chiusura. A marzo 1967 Lercaro si rivolse al Papa, comproprietario della testata, per caldeggiare il ripiano del debito. Preferirei «morire o almeno non essere io sulla cattedra bolognese», scriveva Lercaro, «anziché, sedendovi, vedere ammainata una bandiera che i miei antecessori e io avevamo sempre sostenuto». La risposta dal Vaticano fu gelida: «Non è da pensare che la Santa Sede consumi le già limitate risorse della sua carità per la stampa cattolica in Italia, quando non fa e non può fare questo per la stampa cattolica degli altri Paesi, e quando innumerevoli altre necessità caritative ed apostoliche reclamano il suo aiuto». Poco dopo sull’«Avvenire» cadde la mannaia. Il giornale venne ceduto alla Nuova Editoriale Italiana di monsignor Giuseppe Bicchierai, che lo fuse con il milanese «L’Italia». La Valle fu indotto alle dimissioni (finirà indipendente eletto nelle liste del Pci).
Così dall’agosto del 1967 Lercaro rimane senza il «suo» giornale in un contesto informativo nel quale, scrive Melloni, «Il Resto del Carlino» – diretto dal 1955 da Giovanni Spadolini, prossimo alla nomina alla direzione del «Corriere della Sera» – «affonda i suoi attacchi all’arcivescovo e alla “repubblica conciliare” in nome degli interessi di una borghesia moderata “laica” che si saldano (paradosso bolognese non infrequente) con quelli di un cattolicesimo reazionario».
Sulla vicenda «Avvenire» molto aveva pesato la questione Vietnam. Lercaro aveva preso una posizione nettamente favorevole alla pace in un discorso pronunciato all’Archiginnasio il 26 aprile 1967. Allocuzione che subito allarmò i dorotei alla guida della Dc con Mariano Rumor. Flaminio Piccoli criticò apertamente l’arcivescovo di Bologna. Ma tutto sembrava dovesse finire lì. Lercaro tornò però sull’argomento il 1° gennaio 1968 con un’omelia ancora più clamorosa, in cui sosteneva che la Chiesa non avrebbe potuto né dovuto essere «neutrale» in merito al conflitto vietnamita. Discorso destinato a scompaginare i piani di Paolo VI che, sulla questione vietnamita, aveva in corso una complessa mediazione con il presidente americano Lyndon Johnson (nel corso della quale aveva assicurato al successore di John Kennedy che la Chiesa mai si sarebbe schierata al fianco dei comunisti).
A febbraio, da un momento all’altro, Lercaro viene rimosso e «L’Osservatore Romano» riferisce che ciò è accaduto «a motivo dell’età avanzata e delle condizioni di salute» del cardinale. Niente di vero. La reazione di Lercaro è, scrive Melloni, di «sconcerto furibondo». Sconcerto destinato ad aumentare quando il cardinale riceve una lettera del segretario di Stato Amleto Giovanni Cicognani in cui, per conto del Papa, gli viene preannunciato «un assegno mensile» per «alleviare l’Archidiocesi dell’onere del suo sostentamento». È «un’offerta che sfiora la volgarità», sostiene Melloni; quelle parole costituiscono per Lercaro «uno schiaffo violento e consapevole».
Nel frattempo, sul «Tempo» e sul «Borghese» appaiono indiscrezioni che definiscono (da destra) i contorni politici del conflitto tra il cardinale di Bologna e la Chiesa di Roma. «Il Borghese» si addentra in questioni dottrinali argomentate con perizia, alle quali si aggiunge l’accusa a Lercaro d’aver dissestato il bilancio della sua archidiocesi. Non senza malizia gli viene contrapposta la figura «eccezionale» del vescovo di Reggio Emilia, monsignor Gilberto Baroni, che – secondo il «Borghese» – avrebbe gestito il patrimonio ecclesiastico con maggior oculatezza. Era giunto il momento di un incontro riparatore tra Lercaro e Paolo VI. Incontro che il Papa gli concesse, il 21 marzo, dopo essersi cautelato avvertendolo che avrebbe risposto alle sue «questioni» con le «spiegazioni» a lui «consentite». Il colloquio avvenne alla data stabilita e a Lercaro – che subito dopo ne riferì a Giuseppe Dossetti e a Giuseppe Alberigo – parve risolutivo. Il Papa gli avrebbe addirittura avanzato l’ipotesi di tornare sul trono vescovile da cui era stato brutalmente deposto. Una riparazione, rileva Melloni, che sarebbe stata «talmente fragorosa da poter apparire come il suo contrario». Lercaro in quel colloquio avanzò il sospetto che il suo successore, Antonio Poma, avesse cospirato per accelerarne la destituzione. Paolo VI gli ricordò che era stato proprio lui a scegliere Poma come suo successore. Ma la storia non era finita.
Trascorsero cinque giorni e il segretario del Papa, monsignor Pasquale Macchi, mandò al più stretto collaboratore di Lercaro, don Arnaldo Fraccaroli, una strana lettera in cui si accennava agli «incauti amici» del cardinale che «in buona fede» facevano «correre su riviste e su altri stampati pensieri, considerazioni, notizie che sono certo falsificazioni di quanto lui pensa». E che sarebbero state all’origine del «doloroso anche se silenzioso scandalo». Lercaro, dipinto come «un allocco in balia di non si sa chi», scrisse allora un indignato promemoria e lo mandò al Papa. Si rese necessario una secondo incontro, il 24 aprile, ma stavolta Lercaro si vide costretto a chiudere unilateralmente il proprio caso. Che non verrà riaperto neanche a fine 1968, quando per i tipi di Gribaudi verrà dato alle stampe un libro di don Lorenzo Bedeschi favorevole a Lercaro (ancorché disinformato). Al «libretto» verrà dedicata un’acida nota anonima pubblicata sull’«Osservatore Romano della Domenica».
Morale di questa tormentata, intricata vicenda? Scrive Melloni che Lercaro fu una «figura principesca nello stile e austera nei modi». Teologo e «animatore attivo nel movimento». Porporato «corteggiato proprio dal “partito romano”» che cercò invano di usarlo contro Montini nel conclave del 1963. Ma «presto inviso alle destre ecclesiastiche e politiche che pure avrebbero dovuto apprezzare il suo anticomunismo creativo». Lercaro, prosegue Melloni, venne puntato tra il 1966 e il 1967 e «demolito» nel 1968 «con una logica che travalica il copione maoista del “colpirne uno per educarne cento”». Quale lo scopo recondito di questa iniziativa ai suoi danni? Chi «ordì e perpetrò quella violenza istituzionale» – risponde Melloni – guardava direttamente a Roma e «ai difficili equilibri delle grandi figure della curia postconciliare fra le quali prevaleva l’aggregato… che pensava di poter replicare l’operazione di accerchiamento realizzata nel pontificato pacelliano». Per riuscire in questa impresa, tali ambienti dovevano «isolare definitivamente Paolo VI dalla maggioranza di cui era espressione», «ustionarne le suscettibilità e le apprensioni», «manipolarne le vulnerabilità», «creare – negli interstizi della sua linea di condotta – fatti compiuti che ne compromettessero la credibilità». E «portarlo se mai all’orlo delle dimissioni». Proprio così, scrive Melloni: le dimissioni! Volevano questi ambienti «impedire che la Chiesa italiana potesse liberarsi della tiepidezza politicante che di lì a poco l’avrebbe esiliata per molto tempo dal papato». Sterilizzando con questa operazione, «a lungo o per sempre», la «fecondità del Vaticano II». E con il caso Lercaro andarono a segno. Almeno in parte.