la Repubblica, 1 ottobre 2019
Se Munch fosse stato donna
Forse sarà per il cognome impronunciabile: Schjerfbeck. Forse perché pittrice donna nata alla metà dell’Ottocento, 1862. Forse perché finlandese. Sta di fatto che Helen Schjerfbeck in Italia, ma anche in Inghilterra, non la conosce quasi nessuno. In questo momento, una mostra alla Royal Academy di Londra (fino al 27 ottobre) corregge questa ignoranza nei confronti di un’artista definita da alcuni il Munch femminile e finlandese. Anche se la Schjerfbeck non ha dipinto nessun “urlo": le sue opere sono spesso un dolce, leggero, continuo lamento. Le speranze che una mostra del genere arrivi in Italia sono meno di zero. Se non è Frida Kahlo, non la vogliono. Anche se con la pittrice messicana questa maestra finnica condivide in parte la fatica del vivere, essendo anche lei rimasta menomata a soli quattro anni in seguito a un incidente all’anca che la lascerà zoppa per il resto della vita. Quell’incidente, però, fu anche una benedizione nascosta. Il padre, infatti, le regalerà delle matite per farle passare il tempo durante la convalescenza. Proprio così lei scoprirà il suo incredibile talento artistico. «Regalate una matita a un bambino e gli regalerete un mondo», era solita dire.
Sconosciuta ai più e non certo artista da far fare la fila alle biglietterie di Londra o New York, in patria è invece considerata un tesoro nazionale nella cittadina di Ekenäs, dove l’artista andrà a vivere dopo la morte della madre. Ci sono strade e caffè che portano il suo nome. Il suo alla fine dell’Ottocento è uno stile classico di quel periodo: una sorta di pittura-giornalismo, una specie di Cartier-Bresson del pennello. Si tratta di scene familiari semplici, un po’ da libro Cuore.
Nell’Europa di quel tempo, di pittori di questo tipo ce ne sono a bizzeffe. Ma lei è donna e la realtà la vede con gli occhi diversi dell’ outsider. A soli diciassette anni, dipingerà il Guerriero ferito nella neve. Un povero soldato, più che un guerriero, stremato, appoggiato al tronco di un pioppo sullo sfondo di un paesaggio di neve che sembra un dipinto minimalista di Robert Ryman o Agnes Martin. Questo dipinto rivela al pubblico il grande talento della giovane pittrice facendo decollare la sua carriera. Ma se lo stile di questa tela è classico il contenuto è per quel tempo sorprendente. Nessuno avrebbe mai dipinto un soldato che non sta combattendo, un guerriero appunto. Non solo: guerre e militari erano soggetti per uomini. Le poche donne che dipingevano si dedicavano a vasi di fiori o nature morte. La Schjerfbeck aggira l’ostacolo e affronta il proprio soggetto proprio come una natura morta o morente. Tutto nel dipinto è immobile. Ma i soggetti che svelano di più la natura intimista ed emotiva di questa artista sono quelli con cui lei ha rapporti forti e conflittuali. Per esempio la madre. Nel 1909 Schjerfbeck la dipingerà in un ritratto che sarà uno dei suoi capolavori, ispirato, nemmeno tanto liberamente, al più famoso dipinto della mamma del pittore americano James Whistler del 1871. Helen Schjerfbeck era anche una donna, bella, sexy ed elegante. Una delle sue passioni era la moda che aveva scoperto durante i suoi soggiorni a Parigi. Dei suoi amori si sa poco ma i pochi di cui si conosce l’esistenza finirono male. A cinquantadue anni prenderà una cotta per un giovane fotografo, Einar Reuter, di diciotto anni più giovane. Non potendo apparentemente soddisfare con lui il desiderio carnale lo trasformerà in un soggetto per la sua arte.
Un ritratto del giovane a torso nudo intitolato Il marinaio del 1918 è pieno di una sensualità e di una passione tanto insoddisfatte quanto incontenibili. Delusa, solo un anno dopo Schjerfbeck ne dipingerà un secondo dove Reuter appare quasi come un morto vivente, due buchi neri al posto degli occhi, il volto e lo sfondo con due tonalità di verde più vicine alla muffa che alla speranza. Ma il soggetto che Helen Schjerfbeck sfrutterà di più sarà se stessa, essendo questa a detta sua «un soggetto sempre disponibile».
Nella mostra di Londra la sala veramente più entusiasmante è infatti proprio quella con tutti i suoi autoritratti, dal primo del 1885 all’ultimo sessant’anni dopo del 1945, un anno prima di morire. Sempre con lo sguardo rivolto altrove, il suo volto è attraversato allo stesso tempo dal trascorrere della vita che dalla trasformazione continua e radicale della sua pittura. Anche se scontato, non si può non vederla come una Cindy Sherman ante litteram. Ma, più che altro, la potenza di questi autoritratti piazzano Helen Schjerfbeck in mezzo ai giganti della pittura moderna, da Goya a Francis Bacon, passando attraverso Lucian Freud. L’ultimo autoritratto in particolare, in cui lei è già gravemente malata, riesce a cogliere in modo romantico e drammatico se stessa al confine tra la vita e la morte, scheletro che sta per diventare un fantasma o uno spirito.
Pur non avendo al botteghino l’appeal della collega Kahlo, Schjerfbeck affascinerebbe sicuramente, conquistandolo, il pubblico italiano. Peccato che la timidezza espressiva di un autore influenzi spesso anche lo spettatore. Non è però detto che un bisbiglio debba essere sempre meno potente di un urlo.