la Repubblica, 1 ottobre 2019
I robot non ci ruberanno il lavoro
Il 23 ottobre 2017, il New Yorker aveva una di quelle copertine che segnano un’epoca: si vedono robot luccicanti e aitanti su un marciapiede mentre un giovane con la barba sfatta, seduto per terra, chiede l’elemosina. Nello stile del settimanale, non c’è il titolo ma è come se ci fosse: i robot ci rubano il lavoro. Infastidito dalla piega che stava prendendo il dibattito, il presidente del Mit, Rafael Reif, 69 anni, ha deciso di insediare una task force che studiasse a fondo il tema. Lo si può capire: il Massachusetts institute of Technology è l’incubatore di un certo tipo di progresso. Qui sono stati scritti i primi protocolli di Internet, da qui veniva colui che ha inventato l’email, qui lavora l’inventore del world wide web, qui sono stati realizzati i primi robot militari già trenta anni fa. Se la terza rivoluzione industriale ha un epicentro, quell’epicentro è qui, a Cambridge.Nella primavera del 2018 la “task force sul lavoro del futuro”, composta da una ventina di professori di chiara fama, si è insediata. Obiettivo: trovare riscontri – dati, non parole – «alla retorica allarmistica della conversazione pubblica» per cui «andiamo incontro a una disoccupazione di massa» perché «tre quarti dei lavori saranno automatizzati». La ricerca è ancora in corso ma una prima serie di risposte è già arrivata. In estrema sintesi, i robot non ci rubano il lavoro, ma lo cambiano con due effetti molto precisi: il primo è che alcuni – quelli bravi col digitale – guadagnano molto di più; il secondo è che moltissimi guadagnano molto di meno. Il problema che abbiamo davanti non è la quantità di lavoro, «che anzi aumenterà moltissimo nei prossimi venti anni». Il problema è la qualità del lavoro.
Già adesso ci sono in giro sempre più lavori meno pagati, meno gratificanti, che penalizzano le donne, gli immigrati e in genere le categorie deboli. Ed è da circa 40 anni che va così, per questo siamo così arrabbiati mostriamo un pessimismo esagerato; ma, spiega il Mit, non c’è una legge ineluttabile che determina questo risultato. Si può fare qualcosa e alcuni paesi lo stanno facendo (Germania, Regno Unito, Corea e Canada). Del resto sono almeno tre secoli che le rivoluzioni tecnologiche ci cambiano la vita – e il lavoro – in meglio. Sì certo alcuni tipi di lavori artigianali sono scomparsi; fare le candele non ha più senso da quando ci sono le lampadine; le orchestre nei teatri non suonano più da quando i film non sono più muti; esempi di questo tipo ce ne sono tantissimi e ci ricordano che c’è sempre un prezzo da pagare quando le cose cambiano, e quel prezzo tocca alla buona politica gestirlo per aiutare chi è più debole. Questo va fatto. Sta accadendo?
Intanto va detto che l’automazione di molti lavori non si riflette solo e sempre in una sostituzione degli essere umani; ci sono casi in cui la tecnologia si affianca agli esseri umani consentendoci di lavorare meglio; e altri in cui crea nuovi mestieri. Per esempio i software che usano gli architetti per progettare edifici (Cad), consentono di fare progetti migliori in minor tempo; e quindi gli architetti guadagnano di più; ma al tempo stesso eliminano la necessità di avere tanti assistenti per fare un progetto. Queste persone perdono così qualche posizione sociale e si devono arrangiare, magari lavorando per una app (nuovo lavoro) che fa progetti low cost (lavoretto). Non ci sono più le mezze stagioni, ma neanche i “lavori di mezzo”.
C’è poi un altro fattore tecnologico da considerare, le cosiddette tecnologie so-so, così così. Le vediamo in azione quando un’azienda sostituisce i lavoratori con un software (per esempio per comprare i biglietti aerei o per fare un check-in automatico) in cambio di un piccolo vantaggio. Non come l’energia elettrica nelle fabbriche che fu una svolta, perché consentì turni di notte, meno fumi tossici, maggiore precisione. Sono queste tecnologie che spiegano perché la produttività, per esempio in Italia, non cresce.
Andrà sempre peggio? Su questo il Mit offre alcune risposte sorprendenti: la prima è che «i robot stanno arrivando, ma più lentamente del previsto». Sostituire completamente i lavoratori nelle fabbriche è molto complesso e non porta vantaggi sufficienti: «I robot sono costosi, poco flessibili e difficili da integrare in un ambiente di lavoro». Un esempio viene dalla necessità di certi momenti dell’anno, come il periodo natalizio, di aumentare molto la produzione: «È più facile assumere esseri umani che installare altri robot», nota amaramente il report. Anche l’intelligenza artificiale «è lontana dall’aver creato sistemi in grado di leggere le ultime notizie, anticipare gli eventi ed aggiornare la produzione». Infine le auto che si guidano da sole «non avranno l’impatto previsto» e temuto sugli autisti: sono emersi tanti problemi e ci si sta orientando verso una sorta di guida assistita.
Che fare? Investire in formazione, ovviamente, ma non basta dire “falli studiare il lavoro arriverà”. C’è bisogno di interventi pubblici, dice il Mit, che rendano il lavoro umano più conveniente, più interessante e più importante. Perché «immaginare una società senza lavoro non è un traguardo che dobbiamo augurarci».