La Stampa, 1 ottobre 2019
«Longevi, per scelta e per destino»
Se dovessimo pensare al modo in cui il nostro corpo invecchia, potremmo immaginare che a 20 anni siamo come un’orchestra sinfonica in cui tutti suonano all’unisono. Con il tempo - anche all’orecchio meno attento - non sfuggirà tuttavia un numero sempre maggiore di stonature. Di chi la colpa? Dei suonatori, vale a dire dei nostri geni, o degli strumenti che via via perdono di smalto e quindi dell’ambiente?
Le ricerche genetiche avevano suggerito che fossimo tutti con lo sguardo incollato al nostro libretto di istruzioni, seguendo le indicazioni degli oltre 3 miliardi di lettere del Dna. Poi è arrivata la contromossa: l’epigenetica. È l’ambiente - rivelano gli studi più recenti - il grande «giudice». Chilometri di corse e tonnellate di cibo «healthy», fino allo sfinimento. Ma adesso gli equilibri stanno di nuovo cambiando: tra geni e habitat chi tende a prevalere?
«È una combinazione di fattori, probabilmente 50 e 50», risponde Richard Morimoto, biologo molecolare alla Northwestern University, negli Usa, uno dei massimi esperti di meccanismi cellulari dell’invecchiamento, ospite, sabato prossimo, al festival BergamoScienza. «Pensiamo a 30 mila anni fa - continua - quando l’aspettativa di vita era di 35 anni, mentre in epoca vittoriana era di soli 40. Le città non facevano altro che concentrare tante persone in poco spazio, aumentando la possibilità di contrarre patologie infettive, finché ci si rese conto che la separazione dei sistemi idrici diminuiva le morti da colera. Fu, però, la scoperta degli antibiotici la rivoluzione».
Contemporaneamente è emersa una nuova definizione di anziano, con un’aspettativa di vita via via maggiore. «Se pensiamo all’invecchiamento solo associandolo alle patologie - continua - diventa una realtà morbosa. Dobbiamo invece pensare che alcune persone vivono una vita sana e sono in grado di evitare le maggiori patologie». Ora Morimoto è alla guida di un team che comprende alcune tra le università al top, come Harvard e Stanford, finanziato con 12 milioni di dollari dal National Institute of Health: lo scopo è rispondere a una domanda-chiave: perché l’invecchiamento rappresenta uno dei principali fattori di rischio per l’insorgenza di patologie neurodegenerative? «Dal momento che bambini, teenager e giovani adulti non sono a rischio per Alzheimer, Parkinson o demenza, che cosa accade a livello molecolare e cellulare alla funzionalità delle cellule nel corso dell’invecchiamento, predisponendole al rischio di danni crescenti?».
Il concetto base - risponde Morimoto - è quello del «controllo qualità»: «Quando le cellule sono giovani e sane, nel periodo riproduttivo, il controllo qualità è molto efficiente. Con l’età il sistema inizia però a degradarsi e a fallire e le parti danneggiate non possono essere più sostituite. Ecco perché ci si può considerare fortunati se si arriva a 90 anni e si è sani».
Sul sistema di controllo qualità Morimoto ha dedicato la carriera. «Nell’essere umano così come in molti altri esseri viventi - spiega - esiste un gruppo di geni estremamente interessante e in grado di rilevare diversi tipi di stress cellulare, inclusi gli eccessi termici e la presenza di metalli contaminanti. Questi geni attivano un gruppo di proteine, denominate "Hsp", "Heat shock proteins"». Sono una task-force. «La buona notizia è che proteggono le cellule e i tessuti da possibili danni, legati a una serie di cambiamenti nelle strutture e nelle funzioni».
Il solo innalzarsi della temperatura corporea di un grado - per esempio dopo una corsa di una mezz’ora - fa attivare le «Hsp», come la «Hsp72», riducendo la probabilità che si formino pericolosi aggregati proteici. Questi accumuli anomali sono legati a patologie neurodegenerative come Alzheimer e Parkinson. «Il controllo qualità, però, diventa scarso in molti anziani, anche se, per fortuna, non in tutti». Da che cosa dipenda questa variabilità è una delle sfide che la ricerca sta affrontando.
«Quando si studiano gli individui che vivono fino a 116 anni si scopre che sono persone normali che fanno cose normali, ma che spesso hanno la fortuna di appartenere a famiglie longeve. C’è, quindi, una predisposizione genetica. Anche se non fai esercizio fisico, paradossalmente, vivrai a lungo. D’altra parte, molti americani esagerano: non si limitano ad allenarsi, ma corrono chilometri ogni giorno, pensando che tutto questo li salverà. Gli italiani, invece, conducono uno stile di vita tendenzialmente sano, mangiando porzioni di cibo non esagerate e camminando un po’ ogni giorno. Se osserviamo poi i vostri ultracentenari, notiamo che si tratta di persone che hanno trascorso l’intera vita sempre nello stesso posto». E’ così che si crea un equilibrio stabile tra genetica e ambiente e il Dna non viene stressato da improvvisi cambiamenti nell’habitat stesso.
Dell’ambiente fa parte anche l’aspetto culturale. Spiega Morimoto: «In Europa e Giappone non si consumano molti snack fuori pasto. È noto che, se mangi continuamente, interferisci con il sistema dell’insulina, il quale si può bloccare. Ecco perché nelle nazioni in cui ci sono molti obesi ci sono molti diabetici. Questo meccanismo attiva anche le "Hsp". Tutto, perciò, è correlato. Se fai colazione e aspetti le 13 per fare pranzo, non mangiando nulla nel mezzo, e poi di nuovo fino a cena, dai al corpo, a livello cellulare, abbastanza tempo per attivare i meccanismi protettivi che permettono alle cellule di riposarsi e poi di recuperare».