La Stampa, 1 ottobre 2019
Ascesa e caduta di Weinstein in un documentario
Le palme sotto il cielo di Los Angeles, i red carpet dei festival di Venezia, Cannes, Toronto, i flash dei fotografi. E poi le feste, gli applausi, i premi, i brindisi. Tutto l’oro di Hollywood, di cui Harvey Weinstein disponeva a piene mani, con vittoriosa tracotanza, ma anche indubbio genio professionale. Uno stupratore seriale, sotto la divisa del produttore leggendario, un mostro di talento, abituato a piegare le vittime con il ricatto: «Non ti conviene diventare mia nemica, hai presente chi sono? Se esci da questa stanza sei finita». Andarsene significava fuggire da suite a cinque stelle, marmi, specchi che, in Untouchable, il documentario di Ursula MacFarlane in cartellone al XV Zurich Film Festival dopo l’anteprima al Sundance, acquistano un aspetto sinistro, da film dell’orrore. Una delle numerose testimoni è Nanette Klatt, ex-attrice oggi quasi cieca: Weinstein le aveva chiesto di mostrarsi a seno nudo e al suo rifiuto l’aveva obbligata ad andarsene da una scala di sicurezza non illuminata, per lei totalmente buia.
L’omertà
A Hollywood tutti sapevano, molti sottovalutavano, qualcuno, volutamente, copriva. Il punto è che la parabola di Weinstein inizia sotto i migliori auspici, con la storia di due fratelli legatissimi, fondatori della Miramax, Bob timido e impegnato nelle retrovie, e Harvey, non bello ma brillante, produttore dall’imbattibile fiuto, capace di imporre talenti sconosciuti. I punti più alti dell’escalation coincidono con film come Il mio piede sinistro, Sesso, bugie e videotape, Pulp Fiction. In Italia Weinstein riconosce al primo sguardo l’incanto di Nuovo cinema Paradiso e La vita è bella, si rivede la sequenza di Loren che grida «Robertooo» e Benigni che cammina in bilico sulle poltrone prima dell’Oscar. La forza del documentario è proprio nel continuo alternarsi tra picchi di esaltazione e buchi neri di depravazione. Alle foto sorridenti, Gwyneth Paltrow appoggiata alla spalla di Weinstein con l’aria da bambina riconoscente, Meryl Streep che gli stringe la mano, si alternano le confessioni dolorose di Hope D’Amore, di Caitlin Dulany, dell’ex-assistente Zelda Perkins, di Paz de la Huerta che, nella voce spezzata e nello sguardo perso, denuncia un trauma incancellabile. La prima a combattere a viso aperto contro l’ex- mogul è Patricia Arquette, immediatamente bandita da Hollywood perché il suo nemico poteva influire su qualsiasi contratto. Nell’ascesa di Weinstein hanno un ruolo importante anche i legami politici con la Hollywood democratica e intellettuale, da Hillary Clinton a Al Gore.
Il sofà del produttore
Da sempre, a Hollywood, come ricordano le immagini in bianco e nero con Lana Turner e Rita Hayworth, c’è stato chi ha scelto di «sfruttare i sogni delle aspiranti dive». Il sofà del produttore non è un’invenzione di Weinstein. Le novità, però, sono due, da una parte il sistema di controlli e connivenze messo in piedi, con l’aiuto di agenzie di investigatori privati (come «Black Cube»), per parare in anticipo eventuali denunce, dall’altra la concezione stessa della violenza carnale. Uno degli avvocati intervistati spiega che la difesa di Weinstein si basa su un unico concetto: «Se lui ottiene quello che vuole, significa che il rapporto è stato consensuale». Per alzare il velo sulla trama di ricatti, per mettere a nudo il potere dei soldi, è necessaria la tenacia dei cronisti, Ronan Farrow in testa, ma anche Ken Auletta, e poi Andrew Goldman e Rebecca Traister, protagonisti di una pubblica aggressione da parte di Weinstein. Una scena agghiacciante, lui che insulta una giornalista chiedendo in malo modo di farla buttare fuori. ,Su quell’episodio, non fu scritta neanche una riga. Nel finale la presa di coscienza femminile è descritta anche attraverso brani di Wonder Woman e l’epilogo è una panoramica su un’immensa manifestazione del «MeToo». Eppure, neanche quelle immagini suscitano speranza. Non c’è trionfo finché non si spezza la catena della corruzione, ma, soprattutto, l’idea che il successo possa comprare tutto.