Malcom Pagani per Vanity Fair, 30 settembre 2019
DALLA RAMAZZA IN OBITORIO AL GUGGENHEIM: VITA DI MAURIZIO CATTELAN - ’’SE SONO TIRCHIO? SUI NOSTRI VIZI SIAMO CIECHI - SONO SEMPRE STATO MONOGAMO, LA POLIGAMIA E LA MENZOGNA GRAVANO L’ESISTENZA. NON BISOGNA MAI DIVIDERE CASA CON LE FIDANZATE, È SORGENTE DI EQUIVOCI, LITI, TENSIONI - PER GLI ESTREMISTI NEGLI ANNI ’70 SAREI STATO OTTIMO MATERIALE UMANO, MA QUANDO MIA MADRE MI DICEVA ’SEI UNA PUTTANA E UNA BRIGATISTA’…’’ -
Maurizio Cattelan è nato tutte le volte che ha ucciso una parte di sé. Iniziò da bambino, a Padova: «Che non era solo una città, ma tra patronati e catechismi, un vero e proprio network ecclesiastico all’ombra della chiesa. Avevo fatto a lungo il chierichetto e poi un giorno, di punto in bianco, avrò avuto 10 o 11 anni, dissi a mia madre “oggi a messa non vengo”. Mi domandò il perché, risposi che non me la sentivo e lei concluse che mi sarebbe tornata la voglia la domenica successiva».
Spazzato via dagli entusiasmi stagionali che decennio dopo decennio hanno contribuito alla sua curiosità, il desiderio non tornò. Per potersi spendere, l’artista italiano più quotato del mondo ha dovuto scoprire che certe libertà non hanno prezzo e in omaggio al titolo di una sua antica trovata “lavorare è un brutto mestiere” – «prima di capire che non avere il posto fisso significa lavorare sempre» – ha deciso di trovarsi un’occupazione senza orari, cartellini o svalutazioni.
«Pensi che lusso: siamo in un parco e possiamo sprecare un paio d’ore a parlare. Esiste qualcosa di più prezioso?». Questa intervista è un romanzo di formazione. Cattelan di solito le concede via mail e in tv o dai giornalisti manda un alter ego. Ha accettato di mostrarsi, di raccontarsi, di mettere sotto la lente un’ascesa del tutto inattesa che in America sarebbe già diventata un film. Forse lo girerebbe lui.
Che appenda tre manichini impiccati a Porta Ticinese, raffiguri Hitler in preghiera in Him, spingendo Christie’s a sfiorare la quotazione di 18 milioni di euro, faccia precipitare un meteorite su Giovanni Paolo II nella Nona ora, incolli al muro il gallerista Massimo De Carlo fino a farlo ricoverare al termine dell’installazione, mandi I Soliti Idioti al premio Alinovi-Daolio in sua vece, crei dal nulla la fantomatica VI Biennale dei Caraibi facendosi burla dei soloni o veda sparire un water d’oro da 103 kg – come accaduto recentemente in Inghilterra, alla Blenheim Art Foundation, per Victory Is Not an Option, la straordinaria personale in scena a Londra fino al 27 ottobre: «So che tutti pensano sia una mia trovata, ma purtroppo quei 103 chili d’oro sono stati rubati davvero» – la narrazione è sempre saldamente nelle sue mani.
Credergli o meno, somiglia a un atto di fede. A spogliarsi delle certezze e a entrare nel suo mondo in bilico tra fumetto e paradosso, si rischia con la fantasia. Cattelan inventa. Immagina, provoca, turba e disturba. «Con le idee cambi il mondo, sono quelle a fare la differenza». Se lo chiamano maestro gioca di ironia: «Maestro è un termine ridicolo, ognuno è il maestro di se stesso. A malapena riesco a mettere in piedi le mie mostre. Magari c’è un lavoro del quale non sono convinto fino in fondo, ma so che devo andare avanti perché non c’è tempo e devo mostrare le mie vergogne in pubblico».
Se gli danno del genio, fugge a gambe levate, se i detrattori adombrano il sospetto del bluff, non si scompone: «Non mi sento un bluff, perché il mio lavoro è lì, a disposizione di chi lo voglia analizzare, ma non mi considero certo un genio. Il termine è ridicolo e la parola andrebbe usata con il contagocce. In epoche recenti ne abbiamo visti incoronare tanti e altrettanti scendere dal trono poco dopo, ma se escludi gli indiscutibili, quelli di categoria superiore, l’unico passaporto che si possa concedere a quelli come me è di sapersi sintonizzare con l’oggi».
Da ragazzo, sulle onde da captare, Maurizio Cattelan aveva impegnato molti pomeriggi. «Recuperavo nella spazzatura radio e televisori per smontarli e rimontarli. Il padre di un mio compagno di scuola, radioamatore, mi aveva fornito i rudimenti minimi. Il resto lo facevo io, a casa, sul tavolino che avevo montato sulla sponda del letto, nell’unico spazio tra il mio giaciglio e quello di mia sorella. Tagliavo, saldavo, assemblavo. Termostati, amplificatori, timer. Era il 1976, stavano venendo fuori i primi circuiti integrati, si potevano già costruire computer molto primitivi. Mi iscrissi all’industriale, ma era tutto tranne ciò che mi aspettavo. La scuola ha distrutto una passione: credo di avere un problema fin da allora con l’istituzione e con l’insegnamento».
Quali erano i precetti di casa Cattelan? «A casa mia non si è mai visto un giornale che non fosse Famiglia Cristiana né un libro. Una volta me ne regalarono uno per Natale. Un dono che odiai perché mi aspettavo qualcos’altro. Poi un giorno l’ho preso in mano e la mia vita è cambiata».
Com’era la sua vita nei primi anni? «Siamo cresciuti con poco. C’era la tv, perché Carosello e Neil Armstrong che appoggia il piede sul suolo lunare non li ho dimenticati, ma in casa la doccia l’ho vista soltanto a dieci anni. Prima, fatta la lavatrice, mia madre riempiva una tinozza con l’acqua di scarico e ci si infilava tutti dentro. Non c’era l’acqua e non c’era neanche il gas. Facevamo delle gran gite in cantina per prendere il carbone. A dire il vero non c’era neanche il telefono, ma francamente non so a cosa ci sarebbe servito».
Chi ha avuto poco può fare a meno di tutto? «Direi il contrario. Chi non ha avuto nulla ha bisogno di molto, se non altro per compensare. Non credo cambi poi molto tra un padre Ceo di una multinazionale o un camionista: è importante il rapporto che riesci a instaurare con lui, con la tua famiglia, con i tuoi genitori. Se hanno qualcosa da insegnarti, se cercano di capire chi sei, se trascorrono del tempo con te».
I suoi lo facevano? «I miei sono stati sfortunati. Alla mia nascita, mia madre ebbe un tumore. Poi un’altra malattia e poi ancora un’altra. Mia madre era spesso in ospedale e quando non c’era andava a lavorare per rimpinguare le entrate di mio padre. In una situazione simile, diventare il babysitter delle mie due sorelle era nell’ordine delle cose».
Che rapporto ha con la memoria? «Ho dei bei ricordi e ho memorie meno allegre. Sicuramente ho vissuto un’infanzia che non vorrei ripetere, ma so che più vado avanti con l’età e più devo dedicarmi al domani. L’abilità della nostra mente è selezionare il positivo e cancellare il negativo per cui più il tempo passa, più il passato è bello perché descrivendolo possiamo imbellettarlo, modificarlo, inventarlo persino».
Lei si trovò nella necessità di dover inventare il futuro. «Avevo un’urgenza: rendermi economicamente indipendente. Tra seconda e terza superiore mi beccai tre materie e mi dissi: “A settembre tra i banchi non torno, vado alla scuola serale, mi trovo un lavoretto ed esco di casa”».
E andò fino in fondo al piano? «Fino in fondo. Otto ore di lavoro, cinque di scuola serale in cui imparai il senso della disciplina. I miei amici avevano tanto tempo libero, io pochissimo. Loro hanno imparato delle cose, io ne ho imparate delle altre, qual è la migliore? Non lo sapremo mai».
A Padova non c’era solo afrore di cattolicesimo, ma anche di barricate e contestazione: la città di Sant’Antonio era la stessa di Autonomia Operaia e di Toni Negri. «Di politica tra ragazzi si discuteva di continuo. Non era raro passare per una piazza e vedere barricate o cassonetti incendiati e io stesso prendevo appunti sul retro dei volantini. La scuola serale cambiò la prospettiva. Tra i banchi per lo più c’erano i quarantenni. Studiavano per la paga, per recuperare il rispetto dei figli, per ottenere un diploma che suonasse come una sorta di riscatto sociale. Non c’era tempo né voglia di scioperare tra quei banchi».
Lei era più giovane di loro. «Ma non ero particolarmente interessato alla teoria. Certo ero antimilitarista e pur di non fare il militare sarei stato pronto ad andare anche in galera. Feci regolare domanda di servizio civile, ma ebbi un colpo di culo anche io. Non mi risposero mai e dopo due o tre anni inviai una lettera garbata in cui chiedevo di regolarizzare i termini del mio debito con lo Stato».
Come contestatore sarebbe stato perfetto. «Per gli estremisti avrei potuto essere un ottimo materiale umano, non lo nego. Qualcuno mi avvicinò anche, ma non funzionò. Da un lato ero troppo indipendente, dall’altro c’era la voglia di rassicurare i miei genitori: mia madre continuava a dirmi “sei una puttana e un brigatista”. Erano entrambe due definizioni sbagliate, ma l’epoca era permeata dalla paranoia, dall’ombra, dal dubbio. Mia madre si era fatta un’idea, mio padre gli era andato dietro e a 16 anni, al campanello di casa, suonarono anche i Carabinieri. Facevo tiro a segno e i militari, sospettosi, vennero a chiedermi i perché di quello strano hobby».
Che rapporto ha avuto con i suoi genitori? «Dolcemente dialettico. Gli ho voluto bene. Nelle difficoltà hanno saputo essere a loro modo tolleranti e nel tempo hanno imparato a rispettarmi».
La biografia da nomade a un certo punto la vede a Venezia. «In attesa di un lavoro a tempo pieno andai a fare l’antennista d’estate. Venezia rappresentò il mio mini servizio militare. Dormivo in un’ala abbandonata di un convento che affacciava su una caserma di cadetti della Marina. Si svegliavano alle 5 di mattina per esercitarsi e io seguivo il loro ritmo. Fu bello e divertente tornare a riparare televisori ed elettrodomestici. La borsa, l’antenna sotto il braccio, il vaporetto. Se c’era da andare a prendere la tv ci andavo col carretto. I tecnici erano venerati, era tutto un “prego, si accomodi”».
Prima di trovare la sua strada ha fatto tantissimi mestieri. «Quando da piccolo mi chiedevano cosa volessi fare da grande rispondevo: “Il cameriere”. Uno dei pochi lavori che non ho fatto perché per il resto, dal giardiniere al cuoco, alla donna delle pulizie, passando per la divisa da postino e il ruolo di apprendista contabile che andava a pagare le bollette, non mi sono fatto mancare niente. Per lo più erano occupazioni trimestrali. La prima strutturata, sicura, potenzialmente definitiva, fu in ospedale. Prima il corso di infermiere, poi la corsia. Facevo il tappabuchi tra i reparti: 42 ore alla settimana più 4 ore di corso da infermiere».
Occupazione precisa? «Anche lì, un po’ di tutto. Persino lo spazzino. Con un camice bianco, sempre sporco, svuotavo i bidoni della spazzatura, prendevo un po’ di pioggia sulla testa quando il tempo era inclemente, ogni tanto imprecavo e mi occupavo di tenere pulita una cittadella di tremila persone. A un certo punto mi chiesero se avessi voglia di lavorare in obitorio.
Non dissi di no e feci altri sei mesi, quasi da becchino, rendendomi conto soltanto dopo che tutta questa irrequietezza era figlia di un solo obiettivo: ridurre il lavoro a zero ore alla settimana e ottenere contemporaneamente un salario. In ospedale, nonostante i continui cambi d’abito non ce l’avrei mai fatta e a un certo punto dissi basta. Psicologicamente ero arrivato. Trovai un medico pietoso che capì il mio stato d’animo, mi trovò un po’ esaurito e mi diede un paio di mesi d’aria».
Come impiegò il tempo libero? «Avevo ancora lo stipendio, ma per la prima volta anche la possibilità di guardarmi finalmente intorno. I miei coetanei si alzavano la mattina, se si alzavano, facevano quel che dovevano fare, se volevano farlo, e dovevano riempire la giornata con niente. “Ma è fantastico” mi dissi: voglio farlo anche io».
L’amore a quel tempo che spazio occupava? «Finché non avevo tempo per me, non esisteva. Poi in ospedale qualcosa iniziò a muoversi. Sono entrato in un gruppo molto creativo che incarnava il tipico riflusso di quegli anni rivoluzionari. Però non si parlava più di politica, ma si viveva di eccessi fra creatività e feste in un momento culturalmente entusiasmante. Per me, che in un certo senso arrivavo dalla giungla e dal lavoro matto e disperatissimo, era tutto nuovo».
Sono anche gli anni del dominio delle droghe pesanti. Gli anni dell’eroina che piegò una generazione. «In quegli anni ho perso degli amici, ma sono così naïf da essere andato in vacanza con persone totalmente “scimmiate” accorgendomi della situazione in fatale ritardo. “Ma non ti eri reso conto di niente?”, mi dissero anni dopo. “Noi pensavamo sapessi”. Non sapevo, ma cominciai a capire qualcosa quando dal nulla iniziarono a sparirmi soldi e documenti.
“Sei un deficiente”, mi dissi. Ma avevo delle attenuanti. Il mondo che frequentavo non era poi così lisergico. C’era chi si drogava pesantemente per assentarsi e chi fumava una canna per concedersi un momento ricreativo. Non aderivo a nessuna delle due filosofie perché non sono mai stato un vero consumatore, né tantomeno una vittima. Adesso, al limite, sono più ricreativo di un tempo. Ma è un vizio che è arrivato molto tardi. Forse allora semplicemente non c’era la mia sostanza». (Sorride)
Quando si è reso conto di essere un artista che stupiva? «Mai, neanche oggi. Al principio il motore fu il solito: pagare un affitto, mettere insieme uno stipendio, sostenersi. Andai a fare un corso a Bologna e mi stabilii a Forlì, in periferia. Svuotai la casa dalle cianfrusaglie e ne feci il mio laboratorio. Mi piaceva usare le mani e, grazie a un mio amico che aveva un laboratorio, ripresi confidenza con la fiamma ossidrica, con la saldatura, con i materiali.
Tutto girava intorno alle mie necessità domestiche: una volta costruivo un tavolo, un’altra una lampada, un’altra ancora una sedia. Prendevo una lastra, la tagliavo, impastavo altri elementi e sperimentavo. Fu come frequentare un istituto d’arte o affrontare un esame di fine corso. Decisi di far sapere cosa stavo facendo e, aiutato dalla mia fidanzata di allora, feci quattro foto, diedi un nome alle opere, scrissi una terribile lettera d’accompagnamento in un inglese che faceva ridere e spedii un migliaio di missive a tutte le gallerie di New York. Era il posto in cui volevo andare, il mio sogno».
Realizzato? «Risposero in tre. Tutti dall’Italia. Un paio ringraziando e declinando l’offerta e uno solo, da Bologna, proponendomi di partecipare a una mostra collettiva in una galleria, la Neo, che stava riaprendo. Quello fu il primo piede che misi nel mondo dell’arte. Non sapevo neanche cosa fosse. Era una fantasia. Un sogno. Non conoscevo una galleria, un artista, niente. Ci ho messo almeno dieci anni a capire che cos’era».
E come si orientò? «Mi diedi un orizzonte pragmatico e feci un patto con me stesso: “Se tra due anni riesco a sostenermi vado avanti, altrimenti cambio ancora”. Per darmi una possibilità mi spostai a Milano. Bussai a tutte le redazioni che si occupavano di design, mobili o quel cazzo che fosse. Era il 1989. Dicevo: “faccio queste cose” e aspettavo una risposta.
Qualcuno pubblicò le foto della lampada che avevo costruito, un altro iniziò a venderle e mi entrò in tasca qualche lira. Per un anno dormii nello stesso negozio che la commercializzava, Dilmos, in Brera. Si spegnevano le luci, si tirava giù la serranda e quella per la notte diventava casa mia. Era così grande che ogni notte potevo scegliere di addormentarmi su un letto diverso. Prima di poter acquistare una casa di proprietà in viale Bligny, 16 metri quadrati in tutto, passò del tempo».
Iniziava a farsi conoscere, ma ancora si manteneva a fatica. «I primi veri soldi li ho guadagnati a metà del 2000. Prima, pur avendo già una mia quotazione, guadagnavano le case d’asta. Chi aveva comprato con lungimiranza a poco prezzo le mie opere aveva iniziato a venderle e a speculare, ma la cosa non mi riguardava.
Pensavo all’arte. Mettere in piedi i progetti costava e ogni volta in tasca non mi rimaneva un centesimo. Ma le dico la verità, non era poi così importante. Nel periodo newyorchese, per esempio, riuscivo a vivere serenamente con 5 dollari al giorno. E quando economicamente ho iniziato a vedere la luce, l’unica cosa veramente cambiata era potersi sedere al ristorante senza preoccuparsi dei prezzi. Prima al ristorante non potevo proprio entrare».
Ne soffriva? «New York ha rappresentato un’esperienza dura, ma non per i soldi. In fondo che attraversassi quel mondo mai visto prima, del tutto nuovo ed emotivamente destabilizzante con la limousine o in bicicletta era identico. Sempre con il naso all’insù a guardare la magnificenza degli edifici sarei stato. Non sapevo una parola di inglese e le dimensioni e i rumori erano molto più grandi del luogo e della realtà da cui provenivo. Ma facevo cose che mi interessavano, ero in un posto che mi piaceva e New York, per avere un vero mercato in Europa e in Italia, fu fondamentale. Le due persone chiave di quegli anni furono Francesco Bonami che mi invitò nel 1994 alla mia prima Biennale e Rudolf Stingel che mi presentò alla prima galleria americana».
Bonami ha criticato duramente la sua mostra a Blenheim. «Più che una critica, prendo le sue parole come un consiglio. Non è il primo che mi dà e c’è sempre da imparare». Oggi lei vive principalmente a Milano. «Sono qui perché devo lavorare. Un tempo Milano mi faceva stare male, ora è molto migliorata, è diventata meno provinciale e più europea, ma se dovessi scegliere vivrei a Napoli o a Palermo, due città che mi somigliano».
Ha detto: «L’arte è fatta dagli spettatori». «Sono sempre gli spettatori a fare l’arte. Sono giudici assoluti e sono loro a decretare il successo di qualcosa. Se mi interroga, mi chiede di spiegare un’opera e io lo faccio significa che è un’opera debole perché si può spiegare. Potrei invece raccontarle la genesi o il lampo che l’ha fatta scaturire, ma non cosa significhi: ognuno ci trova quello che vuole».
Se si guarda indietro cosa vede? «Una persona fortunata che ha avuto molto e spera, in qualche misura, di poter restituire. Se penso a cos’ero e dove sono i miei amici di un tempo lontano mi dico che sono riuscito a fare ciò che mi piaceva. Non voglio dire che quel che faccio sia migliore di quel che hanno fatto loro nella vita perché non è vero. Abbiamo percorso strade diverse: ognuno sceglie il proprio destino e la propria felicità.
Ogni tanto ripenso al giorno in cui mi licenziai dall’ospedale. All’ufficio del personale si fermarono tutti quanti: sul volto avevano stupore e sgomento. Mi dicevano: “Ma sei matto? È un posto sicuro, pensa ai tuoi genitori. Cosa farai domani?”. Non lo so, lo scopriremo”. A casa fu uno choc. Mio padre, nel 2000, ancora mi consigliava di ripensarci: “Se torni a Padova magari in ospedale ti riprendono”. Era preoccupato. Sinceramente preoccupato. Mi voleva bene. Era in ansia per me».
Oggi Maurizio Cattelan, a 59 anni appena compiuti, è felice? «Fatico a misurare la felicità. Sto per arrivare ai 60, una barriera che ho sempre osservato con timore perché mia madre a quest’età non arrivò. I termini della questione adesso non riguardano più il successo o l’insuccesso. La carriera ha senso se diventa la tua eredità o la tua famiglia, ma sarebbe un po’ triste se la felicità fosse legata all’esito del tuo lavoro. La vita è altrove. Nella mia routine. Ho una bici, ho un letto, ho degli amici, ho una piscina – non di proprietà, non mi interesserebbe – ma un luogo in cui andare a nuotare. Non passa giorno che non scenda in vasca».
La descrivono ossessionato dalla cura del suo corpo. «È una balla. Nuoto tutti i giorni come potrei tirar di scherma o giocare a calcio. Fare sport mi aiuta a eliminare la negatività, l’aggressività, il dubbio. Entro in vasca con un problema da risolvere e ne esco avendo fatto chiarezza. È una sorta di trance meditativa. Come le ho detto non mi sento maestro di nulla, ma se dovessi insegnare qualcosa a qualcuno direi “Fai attività fisica e fallo regolarmente”. Ecco, l’ho detto, adesso morirò sicuramente steso da una macchina o di cancro fulminante». (Altro sorriso)
È vero che è tirchissimo e molto attento al denaro? «Osservazione interessante. Dipende in che accezione: il lavoro deve essere pagato, su questo non transigo, non ci son cazzi. Poi, come si sa, sui nostri vizi siamo ciechi». Ma si definirebbe avaro o no? «Una settimana fa ho donato 30 mie opere per una charity, ma probabilmente avrei potuto donare di più. Le racconto una storia. Quando ero bambino e tornavo da uno dei consueti periodi in colonia, il mare dei ragazzi che non potevano permettersi un’altra villeggiatura, arrivammo con il pullman al capolinea. Le famiglie degli altri bambini erano lì, di vedetta, ad aspettare i figli. Tutte tranne la mia. L’autista mi vide malinconico, mi domandò se mi ricordassi l’indirizzo di casa e mi riportò all’ovile.
Fu un giorno tristissimo e quella solitudine mi è rimasta dentro per tanto tempo. Vicino a casa c’era un orfanotrofio. Passandoci davanti ogni giorno salutavo due coetanei. Un giorno ebbi l’impulso di regalargli la mia collezione di figurine, una montagna di figurine. Ma arrivò la maestra che le sequestrò, riunì tutti i bambini e le divise equamente tra loro. Fu un grande insegnamento. Dopo una vita passata a fare progetti per gli altri, sto pensando di farne finalmente uno mio. Sto pensando di aprire un orfanotrofio».
Altra leggenda: lei frequenta solo persone più giovani di lei. «Non è una leggenda, è un fatto. Frequento pochi coetanei: è una questione di energia, di scambio, di cose nuove che entrano nei rapporti umani e danno loro linfa». Vale anche per le sue fidanzate? «Non so. Ma perché usa il plurale? Sono sempre stato monogamo. Una è sempre bastata. La poligamia e la menzogna gravano l’esistenza. E con le fidanzate non divido mai la casa. È sorgente di equivoci, di liti, di tensioni. Ognuno vive sotto il suo tetto e quando lo desidera davvero si incontra».
Perché non ha avuto figli? «Sto ancora crescendo. Sa cosa? Mi ha chiesto tante cose, tranne una». Quale? «Se da questa parte del tavolo esiste un cuore, esiste un’anima». Esistono? «Probabilmente sì, ma non li ho ancora trovati».