la Repubblica, 30 settembre 2019
Su "Emanuele nella battaglia" di Daniele Vicari (Einaudi)
Bello. Bello e grazie. Non ci sono parole più appropriate di queste due, le più semplici, per dire a Daniele Vicari che il suo lavoro – ostinato, meticoloso, doloroso – è ciò che più si avvicina a quel che resta dell’idea di Giustizia, o almeno a quello che immaginiamo la Giustizia debba essere. Un’indagine, una preghiera, un libro: Emanuele nella battaglia, si intitola. Non potendo riportare in vita un ragazzo di vent’anni, perché non si può, non riesco a pensare a niente di più vicino alla “restituzione” di queste 360 pagine che come un angolo giro, un cerchio perfetto, tornano a illuminare Emanuele Morganti per quello che era e che resta: un figlio che saluta i genitori sulla porta, un fratello che va a comprare le sigarette al fratello, scherza con la sorella che lo vorrebbe trattenere poi esce di casa con la sua ragazza, una sera qualsiasi, per andare in discoteca. Tanto ci vediamo domani. E invece domani non c’è. Il 25 marzo del 2017 per lui non esiste.
Nella piazza centrale di Alatri, provincia di Frosinone, fuori dalla discoteca Mirò, nella notte fra il 24 e il 25 Emanuele viene ucciso, massacrato da mani e piedi e spranghe che appartengono a una moltitudine di persone, «un grumo di persone », scrive Vicari, che per quindici minuti lo colpiscono senza un motivo, senza che nessuno neppure a posteriori riesca a darsi una spiegazione ammesso che una barbarie simile si possa anche solo lontanamente spiegare, non possono certo essere quelle due male parole quella spinta al bancone del bar, è qualcos’altro, è qualcos’altro. È il momento in cui la tela si strappa e rivela il meccanismo che muove le cose. Quella notte, davanti a centinaia di testimoni, «chi ha paura e scappa, chi resta dentro il Mirò, chi pensa è sempre la stessa storia, chi dimentica tutto nel momento stesso in cui tutto accade, chi si fa i cazzi propri tenendo le imposte serrate, chi interviene sperando di salvare un amico, chi non ce la fa a intervenire, chi guarda, osserva in silenzio» perché sa cos’è «la strada»: «La strada è anche questo».
È qualcos’altro da una rissa scatenata da chi ha bevuto e si è drogato, sì. È qualcosa che ha a che fare in un modo molto profondo col tempo in cui viviamo, con quella che chiamiamo provincia, con un codice di comportamenti e di modelli ricalcati dalle epopee criminali (i film, le fiction) così radicati da essere il solo immaginario possibile per migliaia di ragazzi, e con la criminalità, certo, e col confine labile tra chi fa parte del giro e chi no, con le regole di convivenza, i silenzi, le omissioni.
Daniele Vicari, regista di film tra i più importanti di questi anni, e tra i più nitidi nel disegnare la realtà, è nato e cresciuto a Collegiove, pochi chilometri da Alatri. La storia di Emanuele, che lo raggiunge lontano in un momento di dolore familiare, tocca una corda più profonda dell’indignazione e dello sgomento. È come se lui stesso si sentisse quel ragazzo: Emanuele è rimasto in quella terra, Vicari se n’è andato, e ora torna. Cerca il bandolo di quella storia e un poco anche la sua. Ci sono pagine, nel libro, bellissime dedicate a Zavattini (che ad Alatri ha vissuto) e a De Santis, alla Ciociaria di Non c’è pace fra gli ulivi, a cosa è stato il cinema in quegli anni e a cosa sia diventato – in che modo possa raccontare la realtà e cambiarla, per esempio. Ci sono pagine intime, di racconto familiare e personale, ma subito il fuoco torna sull’altra famiglia, i Morganti. Melissa, soprattutto, la sorella di Emanuele. Un’altra Antigone di questi tempi, un’altra Ilaria Cucchi che non si arrende al racconto osceno e al sabba di omertà criminale che vorrebbe dipingere la vittima come il colpevole. Insieme a Melissa Vicari ripercorre attraverso mesi e ormai anni di colloqui, carte, testimonianze, ricordi, racconti, allucinazioni, sogni il calvario che ha portato due mesi fa a una sentenza. Non per caso il libro va in stampa pochi giorni prima del verdetto.
La giustizia dei tribunali (molto contestata: tre condannati con riduzione delle pene chieste dai pm, e un’assoluzione) non è l’oggetto di questo racconto. Che indaga invece, in uno dei capitoli più intensi, il ruolo di noi tutti, il «diaframma che distingue il testimone dallo spettatore». Chi fa da pubblico a uno spettacolo dove «l’aggressione è parte stessa dello svago», «testimoni e interpreti di quel letale assoluto nulla che è pur sempre una forma di potere, il potere supremo, di vita o di morte sugli altri». E il compito di chi racconta: «Me lo ripeto: non devi giudicare, devi solo raccontare Emanuele nella battaglia».
In quella notte di spettri e di demoni in cui tutti sembrano chiamarsi con lo stesso nome – i Michael, i Manuel, gli albanesi che non lo sono e quelli che lo sono – i violenti esaltano il proprio delirio ripetendo a voce alta le frasi di Gomorra e di Romanzo criminale. Le ragazze nel branco non hanno voce, si limitano ad essere trascinate via, ad assistere mute alle gesta di chi le detiene. L’ultima pagina mostra Emanuele in una scena di caccia, «se lo scegli, stare da solo è la cosa più bella del mondo, ma se ti lasciano solo allora è la fine». Vicari cammina con passo leggero, non lascia impronte. Ha rispetto, dolcezza, compassione, puntiglio. Non molla la presa, ma non stringe. Come un cacciatore senza fucile, armato solo dell’udito, ascolta: i rumori delle foglie, gli animali che si nascondono, le voci lontane. Anche quella di Emanuele, ha sentito. L’ha seguita per tanto tempo, fino a che non è stato capace di riportarlo qui: sorridente e vivo, di nuovo.