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 2019  settembre 30 Lunedì calendario

L’autobiografia di Lawrence Ferlinghetti

Se non è il libro del secolo, è sicuramente un libro lungo un secolo questo romanzo-memoir di Lawrence Ferlinghetti, il padre della Beat Generation, il libraio-editore che diventò «poeta per rimorchiare le ragazze» e che con la sua City Lights pubblicò per la prima volta le opere di Jack Kerouac e Allen Ginsberg, dando voce a una rivoluzione insieme spirituale, letteraria e sociale. La sua autobiografia Little Boy (Edizioni Clichy, pp. 238, euro 17), appena tradotta in Italia dopo essere uscita lo scorso marzo in America in coincidenza del centesimo compleanno dello scrittore, sarà presentata per la prima volta nel nostro Paese a Perugia il 5 ottobre durante la rassegna Umbrialibri, nell’ambito della quale verrà proiettato in prima nazionale, il 4 ottobre, il film Lawrence. A Lifetime In Poetry di Giada Diano ed Elisa Polimeni, dedicato appunto a Ferlinghetti. Il libro, composto a mo’ di un flusso di coscienza joyciano, è un testamento verbale, carnale e cartaceo, fatto di Vita e Parola, un romanzo d’addio e insieme un tentativo di riannodare i fili della propria storia tornando indietro, fino alle origini. Si potrebbe presentare come l’On the road di un Little Boy di cent’anni in cui l’io narrante percorre in retromarcia le strade tortuose del passato; o come un «viaggio alla ricerca del tempo non perduto», perché il vero Paradiso sta dietro di noi e la vita non è che «un processo di circumnavigazione» in cui «ci attorcigliamo fino alle origini e riconosciamo noi stessi per la prima volta come Ulisse che torna a casa». E allora ecco Ferlinghetti tornare fino all’infanzia e alla sua sorte di orfano di padre, prima ancora di nascere, e poi di bimbo abbandonato dalla madre impossibilitata a crescere anche lui, quinto figlio, e quindi affidato alla zia Emilie che a sua volta lo farà adottare da un’altra famiglia.

ORFANO E SOLO
Uno stigma di orfanità e solitudine che inevitabilmente contrassegnerà anche la sua biografia successiva, con il suo destino ramingo e i suoi continui spostamenti di qua e di là dell’Oceano: cresciuto in Francia con la zia, vi ritorna da soldato sbarcato in Normandia (la sua ultima impresa bellica prima di diventare convinto pacifista, dopo aver visto le rovine di Nagasaki), e infine da studente alla Sorbona, per approdare di nuovo in America, di cui è cittadino quasi spurio, perché nato da mamma ebreo-franco-portoghese e papà italiano-lombardo e cresciuto in mezzo a «una domestica irlandese, un giovane autista olandese e una cuoca svedese». La storia dell’Occidente, del Vecchio e Nuovo Continente, riassunta nella sua persona. Ma il destino di Ferlinghetti è un po’ anche quello di tutta la sua generazione, cosicché le sue biografia e opera diventano cent’anni di moltitudine, popolati dai personaggi simbolo del movimento beat e da figure letterarie in cui via via Ferlinghetti si è imbattuto, da lettore, editore o amico o denigratore: la sua storia come un’antologia di letteratura anglosassone. E così vedi spuntare il Jack Kerouac «gonfio d’alcool con il fisico di un boscaiolo in camicia scozzese e cappellino da baseball» che si cimenta «nella ricerca di tutto e di più in un’America che era già scomparsa quando lui ha cominciato a cercarla»; vedi il poeta omosessuale Ginsberg che «si innamorava sempre di etero» e «ha sempre cercato di far diventare gay» Kerouac, ma invano; o Neal Cassady, il co-protagonista di Sulla Strada, «Mandrillo e Adone americano antieroe fuorilegge cowboy», «fallo errante» d’America; e ancora trovi l’Henry Miller che «ha tenuto su l’uccello tutta la vita e ci ha scritto libri grandiosi e ha continuato a scrivere anche quando il suo uccello non ci riusciva più come una vecchia stilografica rimasta senza inchiostro»; e poi gli emaciati Samuel Beckett che aveva «una scrittura tutta ossa proprio come lui» che «dava l’impressione di non mangiare da una settimana»; e T. S. Eliot, magro, deperito, «ombra di se stesso» come la «sua terra deperita (wasted land, ndr)»; e da ultimo i matti: Antonin Artaud che, rinchiuso in manicomio, considerava se stesso sano «e tutti gli altri fuori i pazzi veramente pazzi»; Jean-Paul Sartre «che ha avuto una rivelazione e si è visto come l’Altro e ha cominciato a borbottare Je est l’autre»; ed Ezra Pound che «ha costruito con materiali scadenti i suoi Cantos che non potevano essere assolutamente cantati». L’autobiografia lirica e onirica di Ferlinghetti è però anche molto di più, è un libro assetato di Luce che va disperatamente alla ricerca di un senso, mentre incombe la fine e dilaga il nichilismo.

ASSETATO DI LUCE
L’autore constata la morte di una civiltà che è «ormai andata tutta in malora» e percepisce che nulla ha un filo narrativo coerente, che «ci sono soltanto episodi che non si combinano in un significato» e che «l’unica trama di questo libro sulla mia vita è il mio costante invecchiare». E nondimeno resta in lui l’esigenza, anzi l’urgenza di capire «come e perché siamo qui» su questa Terra, che diavolo siamo venuti a farci: se solo ad alimentare l’eterno processo della moltiplicazione e riproduzione del genere umano, in nome di quella «smania di vivere» che passa dal sesso, dalla dittatura del «fallo eretto» e dal perpetuo rinnovarsi degli appetiti; o se c’è qualcosa di più, una vocazione alla Luce, un tentativo di viaggiare al termine della notte e di spingere la notte più in là, perché altrimenti saremmo solo «una lucina e poi di nuovo la notte ancora e ancora»; e se c’è un’ambizione quasi trascendente ad allungarsi, come i fiori e le piante, verso il Sole o addirittura a diventare «pure creature di luce» perché «nelle distanze infinite deve esistere un luogo dove tutto è luce e la ragione per cui abbiamo ancora la notte è che la luce da quel luogo distante dove tutto è luce semplicemente non è ancora arrivata fin qui». O forse nulla ha senso e la vita è solo una pantomima e la Terra una gabbia di matti, un grande manicomio «in cui il resto dell’universo ha deciso di confinare tutti i casi mentali così da isolarli e non diffondere la loro follia come un virus a tutte le altre creature». Ma anche così sarebbe bello vivere, far parte della congrega dei pazzi, di coloro che «non sopportano una vita normale (ma perché essere normale quando puoi essere felice?) e hanno sempre un desiderio sfrenato di scappare via o esplodere da qualche parte»; coloro che si faranno trovare pronti al ritorno dell’Età dell’Oro, quando la meta combacerà con l’origine e «tutti noi saremo bellissime creature nudi al sole e pazzi di gioia ci ameremo l’un l’altro… e ci rincontreremo». Allora, tra cent’anni o di più, saremo giunti alla fine del viaggio. O forse saremo ancora sulla Strada.