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 2019  settembre 30 Lunedì calendario

Intervista a Salvatore Sciarrino

Salvatore Sciarrino, palermitano classe 1947, è compositore tra i più eseguiti al mondo; i suoi lavori sono entrati nel repertorio di interpreti e teatri, dunque proposti e riproposti. In una parola: vivi. Dunque in controtendenza con quanto accade a gran parte dei colleghi, autori di pagine che non vanno oltre il debutto. In agosto, all’Amiata Piano Festival, il pubblico ha riascoltato la cadenza di Sciarrino per il Concerto di Mozart K491 con Maurizio Baglini al pianoforte. L’opera Luci mie traditrici, ripresa decine di volte, è tornata sulle scene in settembre, nella Venezia che tre anni fa premiò Sciarrino con il Leone d’oro alla carriera.
Lei ha un passato da autodidatta. Come è arrivato alla musica?
«In famiglia se ne ascoltava tanta. A sei anni, già mio fratello mi portava a teatro. E ascoltare mi piaceva molto». 
Ha iniziato a comporre a dodici anni. Prima aveva studiato qualche strumento?
«No, e neppure più tardi. Fare il compositore è un po’ come fare l’architetto, non è che devi saper usare la cazzuola».
Perché comporre equivale a?
«A immaginare cose che prima non c’erano. Nella forma ottimale, il compositore dovrebbe essere quello che si occupa delle cose nuove che gli altri non hanno ancora immaginato». 
C’è qualcuno a cui risulta più semplice. Mozart è passato alla storia per la facilità di scrittura. Anche se forse su quest’aspetto si è banalizzato un po’...
«In realtà, cambiava ed elaborava, aveva sempre un’attenzione critica alla purezza dello stile, che è cosa straordinaria per un talento di questo tipo. Noi pensiamo alla facilità nello scrivere, ma la creatività chiede un atteggiamento critico, è sempre dolore. Senza dolore si producono solo sciocchezze. Si partorisce solo con il dolore». 
E invece, chi era Beethoven, di cui si celebreranno presto i 250 anni dalla nascita?
«È sempre stato considerato un tipo corrucciato, impegnato a cambiare il mondo. Secondo me ci sono due aspetti fondamentali in lui che non sono separabili. Uno è l’immaginazione al limite dell’umano: negli ultimi lavori produce una musica mai sentita, una specie di terra lontana. E l’altro è rappresentato dalle sue idealità sociali che possono sembrare ingenue ma non lo sono». 
Vedi l’Inno alla Gioia della Nona Sinfonia, l’inno europeo. 
«La Nona può sembrare ingenua rispetto ad altri lavori, ma non è così. Gli autori devono essere liberi di poter girare pagina quando vogliono. Le ultime opere di Beethoven tendono al lirismo. E allora perché condannare la Nona che finisce con un canto?».
Ma è Bach il musicista più formativo di tutti. Concorda?
«Nella sua epoca Bach non era apprezzato come oggi perché veniva considerato un parruccone, il sopravvissuto di un’epoca passata. La fama di contrappuntista gli toglie cuore, lo fa diventare una specie di compositore matematico. E senza dubbio lo è, ma è anche grande cuore, non è pura geometria».
È evidente che Verdi sia un compositore italiano, che Cajkovskij o Stravinskij siano russi e Ravel francese. Ma oggi si può ancora distinguere la nazionalità di un compositore?
«Certo. Oggi l’ecologia dovrebbe insegnarci che ogni cosa ha un suo ambiente ideale, che non è casuale, e col quale chi cresce tesse tutta la sua tela. Prendiamo il primo tema del Primo Concerto di Cajkovskij, una melodia ampia, lunga, estesa che però non porta a niente. Solo chi nasce negli Urali può scrivere così». 
E lei che è siciliano?
«Capita che mi chiedano se sono israeliano o palestinese, date le inflessioni, spiegano. Io chiarisco sempre che sono inflessioni mediterranee. Non scrivo in siciliano, ma la Sicilia agisce». 
Quanto agisce l’Umbria, la Regione in cui vive da trent’anni?
«È un parcheggio. Un posto dove vivere tranquilli. L’umbro è molto chiuso, se oggi fossi più giovane forse sceglierei le vicine Marche».
Oppure, sempre per stare vicini, la Toscana...
«La Toscana è terra da ricchi. Non posso starci, così come non potrei stare a Londra. Ma alla fine vivo bene in Umbria, anzi, negli ultimi tempi sono nate amicizie nuove. Giovani amici che mi danno coraggio».
La storia narra di compositori morti in miseria, spesso prematuramente. Con le debite eccezioni, tipo Verdi, che morì ricco a 88 anni. Oggi come vivono i compositori? 
«Io non vivo male, ma non sono ricco, sono sempre un po’ al limite del tracollo».
Del tracollo?
«Sa, il diritto d’autore per la musica contemporanea è stato parificato a quello della musica leggera. Peccato che i numeri siano diversi. Gli editori, avendo un’esclusiva, si prendono tutti i diritti perché mi danno uno stipendio semestrale. In sintesi, di questi diritti non vedo niente. Stesso discorso vale per quelli fonomeccanici: 140 dischi di cui non vedo un centesimo. Quindi: la mia situazione è buona ma al limite del collasso. Cerco di non pensarci, anche perché ho una pensione di 900 euro».
Sta dicendo che dopo anni di insegnamento in Conservatorio, non arriva neppure a mille euro?
«Volli andar via prima, ne pago ora le conseguenze».
L’arte figurativa contemporanea ha visibilità e successo. La musica contemporanea, invece, viene introdotta nelle programmazioni come un male necessario.
«Il fatto che Basquiat venda tanto, non vuol dire che valga. Quando si creano un mercato e una moda, poi la moda tira. Se si creasse la moda della musica contemporanea come in certi Paesi, le cose cambierebbero».
Allude alla Germania?
«Lì la musica contemporanea è diventata un fenomeno quasi inflattivo, semmai ci vorrebbe una maggiore selezione». 
Nell’area di lingua tedesca c’è un pubblico appassionato. 
«Vero. Non è grande ma c’è. Quando il festival di Salisburgo nel 2008 fece il Continente Sciarrino, le 15 serate andarono esaurite già prima della conferenza stampa».
Lei ha detto di aver rinunciato a costruirsi una famiglia per dedicarsi in modo totale alla musica.
«La vivo come un impegno esclusivo, è un’urgenza che talvolta si rivela complicata e dolorosa, perché certe cose bisogna saperle aspettare o far maturare, per alcuni versi è come fare il vino».
Come si sente quando assiste alle esecuzioni delle sue creature? E in particolare alla ripresa veneziana di «Luci», tra i suoi lavori di maggior successo? 
«È raro che segua le mie opere, in genere vado solo alle prime assolute. Sono tornato a Venezia perché ho inserito un pezzo nuovo. Anche questo è raro: non tocco più le opere quando sono arrivate a un certo grado di maturazione, però quando mi è stato chiesto un madrigale da aggiungere dopo il finale, allora ho pensato a qualcosa di pertinente al dramma: volevo che il pubblico tornasse a casa rasserenato dopo la tragedia, considerato che Luci finisce con un’uccisione».
Anche l’opera alla Scala nel 2017 trattava di amori e tradimenti. Perché le passioni continuano ad essere il sale del teatro musicale
«Le passioni sono il sale della vita dell’uomo ed essendo il teatro fatto dall’uomo non può che rispecchiarne la vita. Inutile illudersi di fare cose che rendano tutto più sofisticato, non possiamo ignorare le pulsioni fondamentali». 
Comprese quelle estreme di una tragedia
«Attraverso la tragedia, possiamo capire e godere della normalità della nostra vita. Se sperimentiamo la violenza con l’immaginazione, anziché sperimentarla nella vita di tutti i giorni, riusciamo a esorcizzarla». 
La tragedia, insomma, è una sorta di detox
«Shakespeare nasce da quello. E così Verdi, e così tutti. I Greci sono stati i primi a intendere il teatro come forma di arte sociale che ci libera dalle negatività. Al buio, in una sala, ci immedesimiamo in qualcun altro, pensiamo di essere in un altro corpo e luogo. Sentiamo in noi cose del protagonista, è la forza del teatro».
E in un certo senso del cinema. Lei ha un catalogo sterminato, però per il cinema non ha mai scritto. 
«Ho avuto delle occasioni, ma le ho sempre rifiutate. Morto Nino Rota, Fellini mi diede un appuntamento a Roma, mi chiedeva che lo seguissi sempre, quindi rinunciai. Al Maestro si dice sempre di sì, poi al limite lo molli, disse un’amica. Venni rimproverato un po’ da tutti». 
Cosa ricorda di quell’incontro?
«Gli dissi, Senti, io conosco ogni tuo film, ma tu non sai esattamente la musica che faccio».
E lui?
«Volle che gli mandassi dei nastri. Cosa che feci. Conservo ancora una lettera dove si dice dispiaciuto della mancata collaborazione. Mi è rimasta impressa questa frase, la tua musica ha le sue immagini». 
In compenso ha scritto un brano in omaggio a Ennio Morricone. 
«Nel suo genere è il più bravo, da ammirare. Lo conosco bene perché quando avevo vent’anni facevamo parte entrambi del gruppo Consonanza, suonava la tromba». 
Lei non è di quelli che arriccia il naso di fronte alla musica da film.
«Ogni genere ha i suoi capolavori, e Morricone ne ha scritti. I problemi nascono quando, nonostante si insista a tener separati i vari generi, si usa lo stesso metro di misura». 
Esempi?
«L’opera non va giudicata, ma goduta nelle sue caratteristiche».
Eliminerebbe la critica?
«No, è che il mi piace o il non mi piace non è un principio etico e neppure estetico. È un capriccio, è un atteggiamento momentaneo. Quand’ero ragazzo non mi piaceva Raffaello, ma ero io lo stupido, non Raffaello. Se ci sono autori che non sono nelle mie vene, non solo li rispetto, ma li insegno. Brahms non è nelle mie corde, mentre Mozart sì, ma non per questo insegno solo Mozart. Il piace e non piace sono forme di pura intolleranza, e l’intolleranza non ha a che fare con l’arte. L’arte nasce dal convivio, dal dialogo».
Ha detto che il suo teatro in musica è un teatro che viene dopo il cinema. In che senso?
«Il cinema è basato sul taglio del tempo e dell’azione, come la mia musica. Nel tagliare io stesso i testi, faccio piccole inquadrature cinematografiche. Per esempio, in «Luci», quando il servo fa la spia e corre dal padrone per dire che sua moglie e l’ospite fanno l’amore, noi non sentiamo la prima frase ma solo il suo respiro ansimante perché ha corso, poi avvertiamo l’incredulità del Malaspina. Gli viene sottratta una frase, ma proprio in questo sta la forza del dialogo».
Lei è stato anche insegnante. In composizione, fin dove si può arrivare con lo studio, se manca un talento speciale?
«Il talento è la base. Però la scuola deve servire a chi ha talento e a chi non l’ha. La scuola non si basa solo sulle eccellenze».
La Fondazione Louis Vuitton le ha commissionato un lavoro. C’è forse l’intervento della moglie – pianista – di Bernard Arnault, l’uomo con un patrimonio di oltre 100 miliardi?
«Sì, ed era legato al fatto che volevano avere Maurizio Pollini anche se poi, ammalato, non ha potuto suonare. Il concerto comunque ha poi avuto luogo».
Gli Arnault c’erano?
«Sì, c’erano, li ho conosciuti. Però la Fondazione ha un problema: è un luogo di lusso. A partire dalla struttura, che ha una copertura in vetro che richiede una pulizia continua e ininterrotta affidata a due alpinisti. Per dire quanto è anti-economica. Quando l’arte è legata al lusso o al commercio forse è meno arte di altre, perché non si regge da sola. Un’arte umile è più intima alla nostra essenza».