il Giornale, 30 settembre 2019
In pensione presto, nonostante la Fornero
Anche per le pensioni sembra l’Italia delle «grida» manzoniane: le leggi sono severe, anzi severissime, la realtà dei fatti è tutt’altra cosa. Secondo le statistiche dell’Ocse, ferme al 2017, nel nostro Paese l’età pensionabile per gli uomini è di 66,4 anni; nel 2019 per effetto dell’adeguamento all’aspettativa di vita toccherà i 67. È una delle soglie più alte del mondo, pari a quella di Israele e Islanda, fissate anch’esse a 67 anni. Appena migliore la situazione delle donne: con 65 e 6 mesi siamo appena dietro la pattuglia di testa, pure in questo caso guidata, con 67 anni, dalla stakanovista Islanda. Sono livelli elevati che appaiono per altro perfettamente in linea con l’aspettativa di vita della popolazione della Penisola, notoriamente tra le più longeve al mondo. Se si guarda però all’età effettiva di pensionamento le cose cambiano completamente. Qui precipitiamo in classifica: gli uomini vanno mediamente in pensione a 62 anni e quattro mesi, le (...)(...) donne a 61 anni. Prima che in molti altri Paesi. I numeri dicono che facciamo segnare la forbice più ampia tra età legale ed età reale del ritiro dal lavoro (vedi anche il grafico in queste pagine; ndr). E il dato si riflette sulla percentuale di persone occupate nella fascia tra i 55 e i 64 anni. In Germania, in Svizzera (per non parlare dei recordman giapponesi) a quell’età è normale avere ancora un lavoro, il 70% e oltre delle persone risulta impiegato. Da noi siamo al 53%, un livello paragonabile a quello di Francia e Spagna e significativamente maggiore solo del dato greco. Nonostante, dunque, le dolorose riforme degli ultimi anni, legge Fornero in testa, rimaniamo un Paese di giovani pensionati. Almeno se ci confrontiamo con le altre nazioni industrializzate. E la grande rivoluzione demografica degli ultimi anni, con l’impressionante allungamento dell’aspettativa di vita, dalle nostre parti non ha ancora lasciato fino in fondo il suo segno sul sistema previdenziale.RIVOLUZIONE IN CORSOIntendiamoci, rispetto a una volta molto è cambiato. «Le ultime rilevazioni Istat dicono che una delle poche fasce d’età dove c’è stato un aumento del tasso di occupazione è quella degli over 55», dice Carlo Mazzaferro, docente di Scienza delle Finanze all’Università di Bologna. «E rispetto a qualche tempo fa si va in pensione molto più tardi». Nel 2001 si lasciava il lavoro a 57 anni e tre mesi con l’assegno anticipato e a nemmeno 62 con l’assegno di vecchiaia. In entrambi i casi l’aumento dell’età lavorativa è stato di circa cinque anni, un salto significativo ottenuto in meno di una generazione. Alla luce di questo deciso innalzamento della soglia di addio al lavoro, l’attuale sfasatura tra età legale e età di pensionamento effettivo sembra dunque assumere un significato diverso: una forma di adattamento progressivo a condizioni meno favorevoli e un metodo per garantire flessibilità al sistema. In futuro questa flessibilità sarà garantita dalla logica del meccanismo contributivo così come disegnato dalla riforma Fornero: i lavoratori che di solito si designano con l’espressione «contributivi puri», quelli assunti cioè dopo il 1995 e che vedranno il calcolo della loro pensione interamente basato sui contributi versati, avranno una finestra per il ritiro dal lavoro che andrà dai 64 ai 67 anni. Chi anticiperà i tempi, molto semplicemente avrà un assegno più leggero, per aver versato meno contributi e perché si prepara a incassarlo per più tempo.Per chi invece è stato assunto prima del 1995 (e per cui vale un calcolo basato in parte sui contributi in parte sulla retribuzione) il sistema è stato disegnato in modo da far convergere l’età pensionabile verso i 67 anni uguali per tutti. Il doppio binario lungo cui ci si è incamminati avrà un effetto paradossale: chi ha iniziato a lavorare dal gennaio del 1996 potrà decidere di andare in pensione, a partire dai 64 anni. Chi ha iniziato anche solo un mese prima, dovrà aspettare i 67. USCITE PIÙ VELOCIIl problema diventerà attuale solo a partire dagli anni Trenta di questo secolo e a quel punto bisognerà risolvere la contraddizione insita nell’architettura del sistema previdenziale. Nel frattempo le norme sulla flessibilità fin qui approvate hanno obiettivi meno ambiziosi, visto che si limitano ad apprestare una scorciatoia per questa o quella categoria. Per il 2019 si è parlato molto della cosiddetta Quota 100, che però è solo una delle misure temporanee introdotte con la stessa legge (è la numero 26) e che hanno lo scopo di apprestare una serie di percorsi preferenziali per l’addio al posto di lavoro. Come Quota 100 anche le altre misure avranno una conseguenza non voluta, quella di contribuire non poco ad aumentare il debito pensionistico. Secondo i dati Inps al 10 settembre le domande per Quota 100 sono state 175mila. Quelle per l’assegno anticipato ottenuto annullando fino al 2026 l’adeguamento alla variazione della speranza di vita, 124mila. A questa categoria si aggiungono le domanda per altre due scorciatoie, Opzione Donna, riservata alle lavoratrici con almeno 58 anni e 35 di contributi (20mila) e Ape sociale, il prestito ponte finanziato dallo Stato per determinate categorie di lavoratori (9mila). Il totale supera il livello di 341mila richieste. Le misure non incidono però allo stesso modo sulle finanze pubbliche. «Quota 100 consente fino al 2021 a un numero ristretto di lavoratori di anticipare la pensione anche di cinque anni. In cambio però l’assegno è più leggero. Gli effetti negativi sul bilancio pubblico dureranno dunque fino al 2026, il tempo dell’anticipo, perchè poi per questi lavoratori si spenderà di meno», spiega Mazzaferro. «Al contrario il mancato adeguamento all’aspettativa di vita sarà strutturale, da qui in poi tutti e per sempre potranno approfittare di uno sconto di 10/11 mesi sui tempi previsti per la pensione. Anche se il meccanismo riprenderà a funzionare, i mancati aumenti nei requisiti contributivi non registrati fino al 2026 non saranno più recuperati».Da oggi al 2036 i provvedimenti della legge numero 26 costeranno, secondo i calcoli della Ragioneria dello Stato, 63 miliardi, lo 0,2 medio del Pil. Il livello massimo dei costi (più o meno lo 0,7% del Pil) si raggiungerà nel 2022 e poi la spesa diminuirà via via. GIOVANI E VECCHIResta da valutare una delle conseguenze di questo tipo di misure: far aumentare lo squilibrio, già oggi pesante, tra chi si è già ritirato o sta ritirandosi dal mondo del lavoro e chi, come le giovani generazioni, ha ancora molti anni prima di raggiungere una faticosa pensione. «Oggi a rischio povertà ci sono più i giovani degli anziani», spiega Mazzaferro. «Questi ultimi anche in tempi di crisi sono riusciti a mantenere il loro potere di acquisto». Già oggi l’Italia è il Paese che spende la percentuale maggiore di spesa pubblica per le pensioni. Nel 2017 siamo intorno al 15,7% del Pil contro il 9,5 della Germania e il 12,2 della Spagna. Solo la Francia con il 15 è ai nostri livelli. Oltralpe, però, l’esborso è destinato a rimanere costante, da noi è in crescita fino a toccare un massimo del 18,3 nel 2040. Due studiosi, Mariasole Lisciandro e Pietro Mistura, sul sito lavoce.info hanno confrontato i Documenti di Economia e finanza di Italia e Germania per il 2019. Da noi le maggiori spese (23,5 e 20,5 miliardi rispettivamente in un triennio) hanno riguardato reddito di cittadinanza e Quota 100. In Germania le maggiori spese (nel complesso 17,6 miliardi) sono state indirizzate a interventi per le famiglie, aiuti al terzo mondo e rafforzamento dell’esercito (come la Nato ha chiesto anche a noi). L’aumento della spesa pensionistica è stato in tutto di soli due miliardi.