La Stampa, 30 settembre 2019
Intervista a Donald Sutherland
Per diventare bravi attori «è necessaria una buona dose di fortuna», ma, per quella che gli è toccata, Donald Sutherland, canadese, classe 1935, deve ringraziare soprattutto se stesso. L’aspetto imponente, gli enormi occhi azzurri, quel misto di ironia e severità, ma anche quel tratto ambiguo che gli ha regalato personaggi sfaccettati, mai prevedibili: «Recitare significa votarsi a una vita molto bella, piena di passione, tormenti e ansia. Anche io, dopo tanti anni di mestiere, tremo ancora all’idea di affrontare la platea. Eppure questo è l’unico modo di vivere la mia professione, altrimenti meglio cambiare strada». Attraversando il cinema internazionale, dai tempi di Mash e di Quella sporca dozzina fino alle ultime prove, in Ad Astra di James Gray e The burnt orange heresy di Giuseppe Capotondi, Sutherland ha costruito il suo mito. E l’altra sera, incantando gli spettatori del XV Zurich Film Festival con una masterclass trasformata in vera e propria esibizione, ne ha celebrato la persistenza: «Sapete che cosa disse una vola lo scrittore Emile Zola? L’artista è niente se non ha il dono, ma il dono è niente senza il lavoro. Non basta avere talento, bisogna tenerlo vivo, continuando a nutrirlo».
E’ un attore famoso e amatissimo, eppure confessa di essere sempre teso. Come mai?
«L’ansia è la caratteristica di fondo del nostro mestiere, siamo appesi a un filo, tutto dipende da se saremo ancora scelti oppure no e questo, in alcuni di noi, questo può generare insicurezza o addirittura paranoia. Sappiamo che possiamo perdere da un momento all’altro tutto quello che abbiamo. Una volta un vecchio amico andò a far visita a John Gielgud che, all’epoca, aveva 92 anni. Lo trovò a letto, molto agitato, gliene chiese la ragione e Gielgud rispose "non ho un lavoro". A Hollywood, anche molti anni dopo la pensione, tutti continuano a cercare ruoli e, se non li trovano, si sentono umiliati».
Qual è la paura più grande di un attore?
«Sui set gli attori sono abituati a morire continuamente, in tanti modi diversi, ma la morte peggiore è quella al box-office. Quando un film va male non si trova più lavoro, e questa è la vera condanna».
Ha detto che, nella sua professione, pesa molto il caso, però lei, fin dall’inizio, ha lavorato con i migliori. Com’è andata?
«Il colpo di fortuna conta, ma bisogna anche farsi trovare pronti ad accoglierlo, è un po’ quello che diceva mia madre quando mi ripeteva di stare attento alla biancheria intima, perchè, se mi fosse successo qualcosa, avrei dovuto comunque farmi trovare in ordine. Ecco, a me è andata spesso così».
Per esempio quando?
«Ai tempi di Quella sporca dozzina di Robert Aldrich. Il cast era pieno di star, Charles Bronson, Telly Savalas, Lee Marvin, io ero stato ingaggiato per una semplice battuta, poi si rese necessaria una sostituzione e io mi trovai lì, nell’ufficio del produttore Mgm che, a un certo punto, nel silenzio totale, disse "ehi tu con le orecchie grosse, vieni avanti, la parte la farai tu". La storia delle orecchie era vera, fin da quando andavo a scuola mi hanno sempre chiamato Dumbo, eppure non volo... comunque, da quel momento, la mia vita è cambiata».
E con Fellini come andò?
«Ho amato recitare con Fellini. Una volta aveva spiegato perchè mi aveva scelto per Il Casanova. "Prendo Sutherland, aveva detto, perchè ha gli occhi di uno che si masturba". Ma come faceva a saperlo? Forse glielo avrà detto mia madre».
Come deve comportarsi un regista per ottenere il meglio da un attore?
«Semplicemente dirgli che cosa deve fare. Davvero. Senza tanti giri di parole. A me, certe volte, è successo di essermi innamorato dei registi e loro si sono innamorati di me».
Cosa pensa della grande mobilitazione per l’ambiente promossa in questi giorni dai giovani di tutto il mondo?
«Abbiamo già perso due milioni e mezzo di uccelli. Possiamo fare tutti i possibili sforzi, ma io credo sia tardi. Non ho risposte su questo argomento, solo dolore».