il Giornale, 29 settembre 2019
Palazzo dei Diamanti
Cesare Brandi era un critico sensibile alle opere d’arte e alla letteratura, che non poteva pensare separate, essendo uno scrittore coltivato; ma era altrettanto sensibile alla natura degli uomini, di cui intendeva i meriti e i limiti. A margine del suo libro su Martina Franca, che sta per essere ripubblicato da La nave di Teseo, possiamo leggere ora l’epistolario con il tarantino Antonio Rizzo, direttore di La voce del popolo, che intendeva rifondare il Premio Taranto per l’arte contemporanea. Consultato per indicare nomi convenienti per la giuria del premio, Brandi esprime valutazioni e giudizi rispettosi e, nel contempo, severi, rivendicando la sua posizione estetica con fermezza.
Conviene ricordarla: «Io penso che un premio deve avere la giustificazione non nella tradizione, ma nel modo di prospettarsi nel presente: ritengo che da una collaborazione fra persone divergenti non può venire nulla di buono. O al più un compromesso che renda la Mostra, una edizione appena diversa di San Marino, Francavilla etc. Può darsi che a voi tarantini la cosa vada lo stesso: a me no. Io ho una posizione molto precisa verso l’arte contemporanea, e non accetto d’essere trascinato su posizioni che non condivido. Come sarebbe con Apollonio per Alviani e i ghestaltici, per tutti gli scadenti milanesi con Dorfles. Per questo non ho nessuna voglia di arrivare al solito io do una cosa a te, tu dai una cosa a me; di mostre e di premi ce ne sono fin troppi: se ha da risuscitare il Premio Taranto, ed io debba esserci, deve anche essere una cosa nuova e per lo meno caratterizzata rispetto agli altri premi. Sia ben chiaro che non ho nulla contro Apollonio e Dorfles, personalmente: per tanti versi li stimo anche. Ma i nostri orientamenti sono diversi, e il compromesso che ne scaturirebbe non può avere la mia firma. In quanto al terzo nome, da lei proposto per i giovani, Barilli, è un altro personaggio che io sconsiglierei in pieno, perché legatissimo a tutta la cultura bolognese, da Pozzati a Vacchi».
Una disanima esemplare, e riserve che passano anche attraverso la valutazione di scelte prevedibili e di bottega, sintomi di una concezione critica miope e provinciale. Mi rassicura il giudizio duro di Brandi, oggi, alla lettura di un pretestuoso intervento di Renato Barilli su un tema che accese discussioni un anno fa: l’ampliamento di Palazzo dei Diamanti a Ferrara, per adattarlo a sede espositiva più funzionale di quanto già non sia. Barilli la butta in politica, e chiede al ministro Franceschini di rilanciare l’infausto progetto che, a suo dire, una «destra oltracotante» aveva bocciato.
La «questione di Palazzo dei Diamanti», come lui la chiama, non esiste, né l’ente proprietario del bene (il Comune di Ferrara) intende riaprirla, e tanto meno il ministro ha il potere di contrastare la direttiva (confermata dal Tar) di un valoroso funzionario come Gino Famiglietti, già direttore generale dei beni storici e architettonici, allineato ideologicamente con Salvatore Settis e Tomaso Montanari, esattamente all’opposto di una «destra oltracotante». La cecità, l’astio, l’invidia e la mancanza di riconoscenza di Renato Barilli nei confronti di chi, assessore alla cultura, da lui pregato, gli fece finanziare e realizzare a Milano la mostra «Nouveau realisme», indicano lo stato di frustrazione di chi non si rassegna alla propria irrilevanza.
Barilli oggi vaneggia esattamente come quando difese i vespasiani di Mario Cucinella, in prossimità di piazza Maggiore a Bologna, fatti smontare dal sindaco Cofferati. La confusione mentale e politica di Barilli arriva a vagheggiare che il ministro Franceschini, destinatario abituale di appelli contro di me, revochi «titoli spropositati» e per me «del tutto incongrui», come la presidenza del Mart (che non significa direzione), dimenticando che quella carica era stata attribuita, prima che a me, a Franco Bernabè e a Ilaria Vescovi, non si capisce quanto, più di me, rivolti alla «causa del contemporaneo», come lui interpreta la funzione del critico militante, non giudice ma partigiano di una causa. L’arte non ha «cause»; chiede solo intelligenza e conoscenza. Questo mi rimprovera Barilli, chiedendo a Franceschini di autorizzare, contro i suoi uffici, l’illegittimo progetto di allargamento di Palazzo dei Diamanti, a suo dire (senza nulla sapere delle procedure ministeriali) vietato dal ministro Bonisoli, intimidito dallo «schiamazzo» degli oppositori. Nella sua cieca rabbia Barilli dimentica che quello «schiamazzo», lungi dall’essere alimentato da una «destra oltracotante» (e impotente a bocciare alcunché), consisteva in un appello sul Corriere della sera firmato da uomini di pensiero, storici e architetti, diversamente da lui pensanti (e in gran parte di sinistra), come (per citarne alcuni) Eugenio Riccomini, Arturo Carlo Quintavalle, Riccardo Muti, Moni Ovadia, Andrea e Vittorio Emiliani, Raniero Gnoli, Nicola Spinosa, Marc Fumaroli, Massimo D’Alema, Furio Colombo, Pier Luigi Cervellati (già assessore a Bologna per il partito comunista), David Grieco (nipote del fondatore del partito comunista), Andrea Carandini, Mario Botta, Mario Bellini, Massimo Bray (ministro del Pd), Fulvio Abate, Pierluigi Cerri, Pietro Citati, Oscar Farinetti, David Ekserdjian, Christoph Frommel, Elio Garzillo, Giulio Giorello, Dacia Maraini, Gennaro Migliore, Dario Nardella, Nuccio Ordine, Leoluca Orlando, Gaetano Pesce, Paolo Portoghesi.
Non ne vedo uno di destra, e non parlerei di «schiamazzo», ma di cura e rispetto per un monumento rinascimentale, e quindi da Barilli (volto fanaticamente alla «causa del contemporaneo») incompresi. Posso però ricordargli che il solo uomo di pensiero (debole), a lui affine, che ha sostenuto la bontà del progetto è Achille Bonito Oliva. Un grande intellettuale, diversamente da lui, riconosciuto.