Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  settembre 29 Domenica calendario

COME SMONTARE GRETA CON NUMERI, SCIENZA E ANALISI POLITICA - IL RICERCATORE MARIUTTI: ''LE SUE PAROLE SONO UN PARAVENTO DI INTERESSI E IPOCRISIA, UN'IDEOLOGIA REAZIONARIA E PATERNALISTICA IN CUI QUELLI CHE SI CONSIDERANO I 'MIGLIORI' (I RICCHI SVEDESI EUROPEI) IMPONGONO LE LORO PRIORITÀ DEL MOMENTO AGLI ALTRI. MA IN AMERICA TRUMP HA VINTO GRAZIE AI VOTI DEGLI STATI CHE CHIEDEVANO DI NON CHIUDERE LE MINIERE DI CARBONE, IN FRANCIA I GILET GIALLI COMBATTONO CONTRO LE ACCISE SUL DIESEL DEI LORO CAMION. IL PROBLEMA NON SI PUÒ AFFRONTARE IGNORANDO LA MEDIAZIONE CON LA SOCIETÀ'' -



L’autore è Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico. Founder della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e vice presidente dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) –





Il fenomeno Greta Thunberg, la giovane attivista svedese finita al centro del dibattito mediatico a causa del suo impegno a favore della lotta al cambiamento climatico, dice molto sulla stagione politica che stanno vivendo le democrazie occidentali. Dopo essere balzata agli onori della cronaca internazionale a seguito della partecipazione alla conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2018 (COP24) e al Forum economico mondiale di Davos, la sedicenne è finita al centro di un turbinio mediatico fatto di insulti e insinuazioni, che è arrivato a nutrirsi persino della sindrome di Asperger, da cui la giovane è affetta.

Rimanere lucidi di fronte a tanta ferocia, reprimere il desiderio di restituire al mittente l’odio riversato sull’adolescente è difficile ma necessario, per interrompere il circolo vizioso che alimenta la violenza e l’inconcludenza del dibattito pubblico. Innanzitutto, bisogna fare una premessa.

Il fenomeno Greta Thunberg si compone di due facce. Da una parte un’adolescente fuori dal comune, con un senso di responsabilità e una determinazione sconosciuti a gran parte dei suoi coetanei, con una personalità in corso di sviluppo e dei valori ammirevoli per la sua età. Dall’altra, il mondo degli adulti in ebollizione, alla ricerca di risposte semplici e comode, schiavo della paura e senza speranza, cinico e narcisista, affamato di contenuti ed eroi da manipolare o strumentalizzare.

Ovviamente, riuscire a scindere e analizzare separatamente Greta e l’insieme di input – culturali, familiari, relazioni, sociali, politici – che hanno contribuito, direttamente o indirettamente, a strutturare il suo messaggio è impossibile e probabilmente insensato. Anche quest’analisi, quindi, si adeguerà al dibattito pubblico e tratterà Greta come il simbolo del suo messaggio. Nella piena, e quindi colpevole, consapevolezza che una sedicenne non dovrebbe essere caricata di questo peso.

Detto questo, vale la pena soffermarsi un attimo sulla cornice. Cinquanta anni fa, quando a parlare dei rischi del riscaldamento globale di origine antropica era un pugno di scienziati poco meno che eretici per la comunità scientifica, le parole della giovane attivista svedese avrebbero avuto un valore rivoluzionario. Oggi, però, la situazione è diversa. Il tema è entrato stabilmente nel dibattito pubblico; le evidenze scientifiche sull’origine antropogenica del fenomeno appaiono oramai schiaccianti; la comunità scientifica ha elaborato modelli di rischio sempre più dettagliati; le istituzioni hanno elaborato i primi piani di contrasto al fenomeno.

Le parole della giovane attivista, perciò, diventano un paravento dietro cui nascondere un groviglio di interessi contrapposti e ipocrisia che è più facile ignorare che dipanare. Le politiche di contenimento della temperatura, tanto per cominciare, hanno un costo: a seconda delle stime e degli scenari, tra 50.000 e 120.000 miliardi di dollari.

Chi paga? La domanda può essere declinata sotto diverse prospettive. – Pagano gli Stati, che inevitabilmente sono i principali portatori d’interesse, o paga il mercato, accusato da più parti di aver alimentato irresponsabilmente il fenomeno? – Pagano le economie avanzate, che negli ultimi 150 anni hanno prodotto l’80% delle emissioni di natura antropica o pagano le economie in via di sviluppo, che trainano le emissioni attuali? – Pagano i consumatori, che consumano, o pagano le imprese, che producono?



Ciascuna opzione comporta, a cascata, ripercussioni economiche e sociali che ne determinano la sostenibilità politica.

Le presidenziali USA del 2016 offrono un interessante caso di studio. Durante i due mandati Obama, gli Stati Uniti sono diventati il capofila della lotta al cambiamento climatico. Le politiche dell’Amministrazione hanno prodotto un taglio strutturale delle emissioni di CO2 di quasi un miliardo di tonnellate l’anno. Il governo federale è riuscito a centrare un obiettivo così ambizioso incentivando la transizione nel settore termoelettrico da un combustibile fossile ad alto contenuto di CO2 (il carbone) a uno con minore contenuto di anidride carbonica (il gas naturale), investendo nella riqualificazione industriale e nelle reti intelligenti.

Un approccio progressivo, concettualmente molto distante dai richiami della giovane attivista a “lasciare i combustibili fossili sotto terra” che, però, ha permesso all’Amministrazione di far convergere sulle sue posizioni il mondo accademico, l’industria high-tech, i mezzi d’informazione; poli di attrazione che hanno permesso a Obama di superare l’ostilità dei Repubblicani.

Tuttavia, i paletti imposti dall’Enviromental Protection Agency (EPA) hanno accentuato la deindustrializzazione del tessuto produttivo americano, in particolare in quelle regioni in cui l’industria pesante è il perno dell’economia locale. La chiusura degli impianti ha provocato un’emorragia di posti di lavoro, particolarmente marcata nel settore minerario, in quello siderurgico e nella manifattura energy-intensive, che a sua volta ha alimentato lo spopolamento e il degrado sociale.

Dietro alle statistiche sbandierate dall’Amministrazione – che fotografano un saldo positivo in termini di reddito e posti di lavoro nel percorso di riduzione delle emissioni e di riconversione industriale – si nasconde un quadro più complesso e frastagliato, fatto di vincitori e vinti.

Nelle elezioni presidenziali del 2016 il malcontento degli sconfitti, cementato dall’attività di lobbying degli operatori del settore, ha consegnato a Trump le chiavi della Rust Belt, il cuore industriale degli USA e quindi di sei stati cruciali per la corsa alla presidenza: Pennsylvania, Ohio, Michigan, Indiana, Wisconsin e Iowa.



Gli elettori non hanno premiato il tycoon perché ne condividono necessariamente le posizioni sul cambiamento climatico (i sondaggi registrano, infatti, una crescente consapevolezza dei rischi nell’elettorato repubblicano) ma perché nella loro scala personale c’erano priorità più urgenti della lotta al riscaldamento globale, che i Democratici non sono riusciti a intercettare.

Se il caso americano è già di per sé eloquente, quello francese è illuminante. Il Movimento dei Gilet Gialli, infatti, è nato come reazione all’aumento del costo dei carburanti, deciso dalle autorità francesi nel quadro della decarbonizzazione dell’economia nazionale.

Anche in questo caso, la reazione popolare non è stata innescata da un rifiuto ideologico nei confronti del cambiamento climatico ma dalle ricadute economiche e sociali delle misure adottate dalle autorità francesi per combatterlo. Nel corso del 2018 il prezzo del diesel in Francia è aumentato del 18% e nuovi aumenti sono previsti per il 2019, a dispetto delle fluttuazioni del prezzo del barile. I rincari hanno colpito in particolare i pendolari e l’economia agricola che, a causa della crescente meccanizzazione, è sempre più dipendente dal gasolio agricolo. Quindi, ancora una volta, un’onda che monta dal basso.

Nelle piazze francesi, però, al contrario che nei distretti industriali americani, il tema dell’aumento delle accise si è immediatamente fuso con altri temi: il contrasto alle disuguaglianze economiche, la riaffermazione della sovranità popolare, l’aumento dei salari minimi. Tematiche che, al netto di semplificazioni populiste o di eventuali influenze esterne, hanno una chiara matrice socialista.

Il caso americano, e ancor più quello francese, dimostrano perciò come la lotta al cambiamento climatico rischi di venire assimilata a quell’attacco concentrico alle classi subalterne di cui, quantomeno nell’immaginario popolare, già fanno parte la globalizzazione, la gestione di fenomeni migratori, l’economia della conoscenza. E che, quindi, precipiti al centro del dibattito politico, quando sarebbe opportuno che ne rimanesse al di sopra.

Tutto questo a Greta non interessa. La sedicenne preferisce concentrarsi su “cosa deve essere fatto anziché su cosa sia politicamente meglio fare”.

Quella per il consenso, però, non è una partita sporca come lascia intendere la giovane attivista ma un passaggio fondamentale nel processo di decision making all’interno di una società democratica. Non temere l’impopolarità vuol dire non essere disposti a mettere in discussione il proprio punto di vista per raggiungere un fine superiore. Significa mettere in cima alla scala delle priorità sé stessi, le proprie idee e convinzioni, piuttosto che la soluzione al problema.

Questo aspetto aggiunge una sfumatura sgradevole all’intransigenza di Greta. La sedicenne – troppo giovane per aver acquisito una piena consapevolezza della propria identità sociale – è nata in uno dei Paesi più ricchi del mondo ed è figlia della grande borghesia svedese: la madre è una cantante lirica e il padre, attore, proviene da una famiglia di attori e registi. Difficile, quindi, non interpretare il distacco dell’adolescente come una reale distanza dai bisogni e dalle priorità delle classi popolari.

Al di là delle intenzioni e della retorica, Greta si fa portatrice di un’ideologia reazionaria e paternalistica che trasforma prospettive universali come la solidarietà, l’equità o la giustizia in patenti che i migliori attribuiscono di volta in volta agli argomenti che ritengono degni.

Questa non è l’unica distorsione inquietante nel messaggio di Greta. La giovane, infatti, non affronta mai il tema della giustizia sociale nei suoi interventi ma fa frequenti riferimenti alla distribuzione delle risorse su scala globale, rilanciando un tema caro agli intellettuali europei: il terzomondismo.

Tuttavia, quando l’adolescente ricorda che una piccola minoranza della popolazione mondiale consuma la larga maggioranza delle risorse, dimentica che oramai più del 60% delle emissioni di gas climalteranti (a effetto serra, che aumentano il riscaldamento globale) di natura antropica proviene da economie emergenti. Tralascia che, mentre UE e USA tagliano le emissioni di CO2 da almeno un decennio, la Cina raggiungerà, auspicabilmente, il picco entro il 2030 e l’India, presumibilmente, durante il decennio successivo.

Sovrapporre il tema dello sfruttamento delle risorse a quello del riscaldamento globale permette a Greta di evitare un nodo fondamentale ma al contempo sdrucciolevole del problema: il ruolo dei Paesi in via di sviluppo. Se è indiscutibile che, in prospettiva storica, i Paesi in via di sviluppo sono responsabili di una quota limitata delle emissioni di natura antropica, è altrettanto indiscutibile che oggi sono il motore del riscaldamento globale.

Di conseguenza, anche se le economie avanzate azzerassero le loro emissioni entro il 2030 – come auspica Greta, incurante o ignara delle ripercussioni sociali – i target per il contenimento dell’aumento della temperatura entro i 2° non sarebbero raggiunti.

Auspicare che le economie emergenti taglino le emissioni di gas climalteranti, però, vuol dire auspicare che si blocchi il meccanismo attraverso cui centinaia di milioni di persone stanno fuggendo dalla povertà. Con conseguenze umanitarie, sociali e politiche potenzialmente catastrofiche. Meglio aggirare il problema rifugiandosi in uno stereotipo che da cinquant’anni ha una grande influenza sul mondo intellettuale occidentale: “La razza bianca è il cancro della storia umana; è la razza bianca ed essa sola – con le sue ideologie e le sue invenzioni – che sradica civiltà autonome ovunque proliferino, che ha sconvolto l’equilibrio ambientale del pianeta, e adesso minaccia l’esistenza stessa della vita.” (Susan Sontag).

Ancora una volta, perciò, l’ideologia ha la meglio sulla realtà, la ricerca della purificazione sulla ricerca di una soluzione. Una volta scomposto e analizzato, il messaggio di Greta si inquadra perfettamente in quella visione religiosa del Capitalismo, descritta da Walter Benjamin (Il Capitalismo come religione, 1921) e profondamente radicata nella cultura protestante; si trasforma in una dottrina volta alla mera colpevolizzazione piuttosto che alla riparazione del danno e quindi all’espiazione della colpa.

Questo sentimento bigotto, che attraversa ampi settori del mondo intellettuale europeo, ha già condannato i programmi di contenimento delle emissioni al fallimento. La battaglia che combatte Greta Thunberg è già persa. Non per le difficoltà finanziarie dell’impresa ma perché i pochi anni che rimangono prima del cosiddetto punto di non ritorno sono troppo pochi per elaborare una sintesi politica, un sistema di pesi e contrappesi adeguato a sostenere lo sforzo culturale, economico, sociale.

L’umanità, quindi, è spacciata? No. Anche sotto questo aspetto, infatti, la retorica della giovane attivista è fuorviante. Il riscaldamento globale, infatti, non è solamente un fenomeno graduale ma anche reversibile.

Un mese prima che Greta Thunberg pronunciasse la sua invettiva infuocata al TED Talk di Stoccolma, in un altro TED Talk (We the Future), Chad Frischmann illustrava un altro approccio al problema, rigenerativo: invertire il ciclo alla base del cambiamento climatico, catturare la CO2 dall’atmosfera e stoccarla nuovamente nelle viscere del pianeta o nell’ecosistema.

Chad Frischmann, esperto di fama mondiale, non è una voce isolata nella comunità scientifica: figure molto autorevoli, come il glaciologo di Cambridge Peter Wadhams, Bill Gates, filantropo e innovatore, o David Keith, eminente professore di fisica applicata a Harvard, hanno scommesso sulla cattura diretta in atmosfera della CO2; centinaia di ricercatori stanno producendo letteratura scientifica e studi di fattibilità su tecnologie (chimica avanzata, nanotecnologia, biotecnologie) e infrastrutture; decine di imprese, dipartimenti universitari, startup e organizzazioni no-profit hanno sviluppato soluzioni sperimentali e impianti pilota.





La cattura diretta della CO2 (Direct Air Capture) non è una panacea, non può comunque prescindere da un piano di contenimento delle emissioni, deve essere alimentata con fonti rinnovabili e, almeno per il momento, è un’opzione costosa. Però, dimostra che c’è un’alternativa all’oltranzismo di Greta, un nuovo approccio diventato rapidamente egemone tra gli esperti di settore.

Oramai, quantomeno in ambito specialistico, ci si è convinti che un problema con così tanti ordini di complessità possa essere affrontato solo con una strategia integrata, mettendo a sistema tutti gli strumenti disponibili. Quindi, attraverso un graduale potenziamento della capacità nucleare globale, agevolando la transizione dal carbone al gas naturale, investendo sull’idrogeno, catturando la CO2 al momento dell’emissione o direttamente in atmosfera, riprogettando le reti di trasmissione e distribuzione, aumentando la capacità di assorbimento della biosfera, esplorando le opportunità che offrono l’ingegneria climatica e la geoingegneria.

E, ovviamente, grazie a un programma di contenimento delle emissioni che, però, prenderà la forma di un percorso di efficientamento – economico, energetico e tecnologico – piuttosto che di rinunce. Una nuova Rivoluzione Industriale, perciò, sospinta dall’opportunità piuttosto che dal bisogno.

Questo nuovo approccio, plasmato dall’urgenza e quindi improntato al pragmatismo ha, però, una grave pecca agli occhi dell’ambientalismo radicale: non è educativo. Non indirizza necessariamente i consumatori verso modelli di consumo più sostenibili, non implica uno sfruttamento più oculato delle risorse, non favorisce lo sviluppo di un’economia circolare, non riduce l’impatto ambientale umano. Non racchiude in sé un’ideologia ma semplicemente una soluzione al problema. E per questo è un compromesso inaccettabile.

Sulla testa di chi, però, si combatte questa battaglia? Sulla testa dei contadini e degli allevatori ciadiani e nigerini, che vedono il lago Chad scomparire rapidamente e lasciare il posto ai conflitti armati; sulla testa di milioni di bengalesi, indiani, indonesiani, laotiani, cambogiani, thailandesi, cingalesi costretti a fronteggiare monsoni sempre più violenti e distruttivi; sulla testa delle comunità artiche, che assistono impotenti alla fine del loro mondo.

Individui che, almeno nel breve/medio periodo, difficilmente farebbero in tempo a sperimentare i benefici di modelli di consumo più sostenibili o di un’economia circolare, ma che rischiano di vedere le loro vite spazzate via entro pochi anni dalla siccità, dalla desertificazione, dalle alluvioni, dall’innalzamento del livello del mare, dallo scioglimento dei ghiacci.

Inquadrato con precisione, quindi, il fenomeno Greta Thunberg trascende la lotta al cambiamento climatico e si inserisce perfettamente nel contesto sociopolitico del momento. Si trasforma in un ennesimo fattore di polarizzazione, nell’ennesima narrativa emozionale destinata a impastare sentimenti ingenui ma genuini con cinismo e ipocrisia. E dimostra chiaramente che, lungi dall’essere un virus populista, il tribalismo è “lo Zeitgeist di questi tempi” (Walter Quattrociocchi, Il mondo di Internet diviso in tribù, Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2019). Twitter @enricomariutti