La Stampa, 29 settembre 2019
Nella struttura che ospita le madri assassine
inviato a castiglione delle stiviere
Come bisogna chiamarle, innanzitutto, le donne che vivono qui? «Per il codice penale sono internate. Un nome che fa paura. Definirle utenti sarebbe scorretto, visto che non scelgono di usare questo servizio. Ospiti, poi, non avrebbe alcun senso. Per noi sono semplicemente delle pazienti».
Lo psichiatra Gianfranco Rivellini le ha conosciute tutte. Dal 1986 è al suo posto. La sezione femminile è accanto al campo di pallavolo. Attorno alla rete, ci sono delle sedie di plastica rossa: lì stanno sedute nel pomeriggio le madri assassine.
Chi cospargeva suo figlio di acqua santa e l’ha ucciso perché voleva liberarlo dal demonio. Chi intendeva proteggerlo da un male incombente, che sicuramente sarebbe arrivato. Chi lo considerava vittima di pedofilia, quindi meglio metterlo al riparo. «Totalmente incapaci di intendere e volere» quando hanno commesso «il fatto», secondo il giudice. E adesso sono qui. Su questa frontiera di sofferenza estrema. A cercare forse un ritorno alla vita.
Una volta Castiglione delle Stiviere finiva in tutte le trasmissioni di cronaca nera. L’immagine era sempre la stessa: queste panchine davanti all’ingresso, sul crinale della collina, con una donna inquadrata di spalle. Fra Desenzano del Garda e Mantova, in una terra di trattori e piscine fuori terra, c’era l’unico ospedale psichiatrico giudiziario italiano con una sezione femminile. Dal 31 marzo 2015, con la chiusura degli Opg e l’inaugurazione delle Rems – residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza – le competenze sono state distribuite in tutta Italia. Ogni regione ha la sua struttura. Ma quella di Castiglione delle Stiviere resta la più grande. Oggi ci sono 160 persone che non potevano andare in carcere: 140 uomini e 20 donne, di cui tre madri che hanno ucciso i loro figli. Edlia Dobrushi, di 38 anni, che a Lecco accoltellò le figlie Sidni, Kesi e Simona. Antonella Barbieri che fece lo stesso con i figli Kim e Lorenzo, fra Luzzara e Suzzara in un pomeriggio di dicembre. La terza donna, Alice Sebaste, era stata fermata con un carico di marijuna fra Monaco di Baviera e Roma ed uccise i suoi figli Faith e Divine in un posto in cui dovevano essere al sicuro. Li buttò giù dalle scale nella sezione femminile del carcere di Rebibbia, e dopo qualche giorno disse al giudice: «Adesso sono liberi».
Molto è cambiato nel corso degli anni. Sono cambiate anche le madri che arrivano qui. «Una volta erano per lo più donne di campagna», dice il dottor Rivellini. «Erano persone sole, non curate. In percentuale meno dal meridione, più dal settentrione. Ora predomina il contesto urbano. La maggior parte ha fra i 30 e i 40 anni. Sono in aumento le donne di origine straniera. Tutte hanno vissuto una situazione insopportabile e ingestibile dentro una grave cornice di disturbo mentale».
Per pranzo: tortelli di zucca e fettine di pollo. Le giornate scandite da ritmi precisi. Alle 8 viene somministrata la terapia. Alle 10 bisogna lasciare la stanza. C’è un bar centrale dove si può fare la seconda colazione e incontrare tutti gli altri pazienti. Ogni tanto nascono delle storie d’amore. Nessun poliziotto fa la guardia. Perché questa non è una prigione, nemmeno deve sembrarlo. «L’unico percorso possibile è quello della fiducia reciproca», dice l’altro direttore della struttura che ricade sotto la competenza dell’Asl di Mantova, il suo nome è Stefano Pellizzardi. Lui deve occuparsi delle questioni pratiche. Per esempio: far quadrare i numeri. «Deve esserci uno psichiatra ogni dieci pazienti. Almeno uno psicologo e un educatore ogni venti. Due infermiere sul turno delle 24 ore». Ogni tanto qualcuno scappa. Non è una fuga. Si chiama «allontanamento volontario». «Qui non ci sono muri, nessun sistema coercitivo», dice ancora Pellizzardi. «Ma dobbiamo stare comunque attenti alla sicurezza di tutti. Dei pazienti, degli operatori e del mondo fuori. Con la prefettura stiamo studiando un protocollo per i pattugliamenti esterni. Abbiamo delle telecamere, tutti i vetri sono anti sfondamento». Gli operatori spesso devono fronteggiare la rabbia o, peggio, la consapevolezza. «Arriva quasi ogni volta il momento in cui mi chiedono di poter andare a pregare sulla tomba del figlio ucciso», racconta la psichiatra Maria Grazia Missora. «È il momento più straziante».
Oggi sono venti le persone in lista d’attesa per poter entrare al Rems di Castiglione delle Stiviere. In genere il giudice assegna dieci anni di trattamento. Ma quando il percorso di riabilitazione funziona, le madri vengono affidate a una comunità e poi vanno a casa, quando ancora ne hanno una.
«La guarigione totale non c’è, ma si può tornare a vivere una vita dignitosa», dice Rivellini. «Per noi è gratificante vedere i progressi. Ma un grande ruolo lo giocano i parenti. Questo è un reato che lascia un segno profondissimo anche nella società. Mi sembra che ultimamente ci sia più comprensione per la malattia mentale».
Passano nella testa i ricordi. Quella signora che adesso lavora in un laboratorio tessile e ha trovato un nuovo compagno. Quella donna rientrata in Macedonia, che ancora manda ogni volta gli auguri di Natale. E «la Meri». «La Meri che a distanza di anni sta bene, ed è rimasta in contatto con altre donne». Dal 1996 a oggi sono passate da qui 94 madri assassine. Solo una di loro è tornata a essere violenta.
Alle 5 finisce la partita di pallavolo. Qualcuno fa giardinaggio. Altri partecipano al laboratorio di poesia. Quello che serve è stare insieme. Questa sera al cinema della comunità danno Erin Brockovich, una donna che ha combattuto per farsi ascoltare.