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 2019  settembre 29 Domenica calendario

Amos Oz spia la gente

Nel cortile del liceo Rechavia, a Gerusalemme, c’era un albero di eucalipto su cui qualcuno aveva inciso un cuore trafitto da una freccia. Sul cuore trafitto, ai due lati della freccia, stava scritto: Gadi-Ruti. Ricordo che già a quell’epoca, avrò avuto tredici anni, pensavo: L’avrà fatto Gadi, quel cuore, non Ruti. Perché l’aveva fatto? Non lo sapeva che amava Ruti? O lei non sapeva che lui l’amava? Se ben ricordo, già a quell’epoca dicevo a me stesso: Forse qualcosa dentro di lui sa che passerà, che tutto passa, che quell’amore finirà. Così, voleva lasciare qualcosa. Voleva che di quell’amore restasse memoria anche dopo, una volta passato. Il che somiglia molto all’impulso che porta a raccontare storie, a scrivere libri: mettere qualcosa in salvo dalle grinfie del tempo e dell’oblio. Questo, e anche il desiderio di dare una seconda occasione a ciò che un’altra occasione non avrà mai più. Anche questo. Le forze che spingono questa mano a scrivere sono anche il desiderio che quel qualcosa non sparisca, che non sia come se non fosse mai stato – e non intendo solo cose successe a me. (…) Ogni tanto mi chiedo da dove vengano le storie, e non sono poi così capace di rispondere. Vedi, per un verso lo so, sì, perché è tutta la vita che faccio la spia. L’ho scritto in Una storia di amore e di tenebra. Ascolto conversazioni altrui, osservo gli estranei, e quando mi trovo in coda dal dottore, alla stazione o all’aeroporto, non leggo mai il giornale. Preferisco ascoltare la gente che parla, rubare sprazzi di conversazioni, completarle con le parti mancanti. Oppure osservo i vestiti, lancio un’occhiata alle scarpe – le scarpe hanno sempre un mucchio di cose da raccontare. Studio la gente. Ascolto. Il mio vicino di casa al kibbutz Hulda, Meir Sibahi, diceva: Ogni volta che passo davanti alla finestra della stanza dove Amos scrive, mi fermo un momento, tiro fuori un pettine e mi pettino, perché se mai dovessi entrare in una sua storia almeno ci entrerei pettinato. Il ragionamento non fa una piega, ma da me non funziona cosi. Prendiamo come esempio una mela. Di che cosa è fatta una mela? Acqua, terra, sole, un albero di mele e un po’ di concime. Eppure non somiglia a nessuna di queste cose. È fatta di questo, ma non somiglia a niente. E cosi è una storia, né più né meno di un impasto di incontri, esperienze, ascolti. Il mio impulso primario è quello di provare a indovinare come mi sentirei se fossi lui, se fossi lei: che cosa penserei? Che cosa desidererei? Di che cosa mi vergognerei, se fossi lei? Che cosa, per esempio, non vorrei che nessuno al mondo sapesse di me? Come mi vestirei? Che cosa mangerei, se fossi lei? Ciò mi accompagna da sempre, da ancor prima che cominciassi a scrivere delle storie, sin da quando ero bambino. Ero figlio unico, non avevo amici. I miei genitori mi portavano al caffè di via Ben Yehudah a Gerusalemme, promettendomi il gelato se stavo buono mentre loro parlavano con gli amici. A Gerusalemme in quell’epoca il gelato era una rarità. Non perché costasse molto, ma perché le nostre madri, religiose e laiche, sefardite o ashkenazite che fossero, erano tutte senza eccezione fermamente convinte che il gelato fosse sinonimo di gola rossa, di infiammazione, di influenza, di angina, di bronchite, di polmonite, di tubercolosi. In poche parole: o gelato o bambino. Ciononostante, loro promettevano che mi avrebbero comprato il gelato se non li avessi disturbati durante la conversazione. Con quei loro amici loro chiacchieravano a dir poco settantasette ore filate. E io, per non impazzire di solitudine, decidevo di spiare le persone sedute ai tavoli vicini. Rubavo frammenti di conversazioni, osservavo, chi invita chi? Chi paga? Cercavo di indovinare in che rapporti fossero le persone sedute al tavolo accanto, e provavo persino a immaginare da dove venissero, come fosse casa loro, studiandone l’aspetto, il linguaggio corporeo. Faccio lo stesso, ancora oggi. Non intendo dire che scatto delle fotografie, torno a casa, le sviluppo e mi ritrovo con una storia. Strada facendo si attraversa una marea di trasformazioni. Ne La scatola nera, per esempio, c’è un ragazzo che ha la mania di grattarsi l’orecchio destro con la mano sinistra, passandosela dietro la testa. Una volta una donna mi ha chiesto: Dove l’hai presa, questa cosa? Perché anche lei conosceva un tizio che si grattava l’orecchio con la mano sinistra, passandola dietro la testa. Le ho risposto che ero quasi sicuro di averlo visto fare, una volta, e lei mi ha incalzato: Dove, dove l’hai visto? Con tutta la buona volontà, proprio non lo so. Veniva da un ricordo dimenticato, non era una cosa campata per aria, ma non ho proprio idea di dove l’avessi presa. Sai una cosa? Te la dico così: quando scrivo un articolo, di solito lo faccio perché sono arrabbiato. La spinta principale è che sono arrabbiato per qualche motivo. Ma quando scrivo una storia, una delle cose che muovono questa mano e la curiosità. Una curiosità tale che non riesco a saziarla. Mi incuriosisce da matti mettermi nei panni degli altri. Credo che la curiosità non sia soltanto una condizione indispensabile per qualunque opera intellettuale, ma anche una virtù morale. Forse proprio la dimensione morale della letteratura. Ne discuto sempre con A.B. Yehoshua, che pone la questione morale a monte della creazione letteraria: delitto e castigo. Io credo che ci sia, sì, una questione morale, ma in altri termini: mettere te stesso per qualche ora nei panni di un’altra persona, o dentro le scarpe di qualcun altro. Il che ha un peso morale implicito, non troppo grande. Senza esagerare. Ma credo davvero che una persona curiosa sia un partner un po’ migliore di quanto non lo sia una che non lo è, e anche un genitore un poco migliore. Non ridere di me, ma credo che una persona curiosa sia anche un automobilista un po’ migliore di chi non lo è, perché si domanda che cosa sarebbe capace di fare quello che guida sulla corsia parallela. E ho l’impressione che una persona curiosa sappia perfino amare meglio. (…) Una volta c’era una donna a una finestra illuminata, alle quattro e mezzo del mattino, che guardava verso il buio. Mi sono fermato a guardarla io, dal buio. Non per il motivo che credi tu. Comunque non solo per quello. L’ho guardata dall’oscurità e mi sono chiesto che cosa poteva esserle successo, in quelle ore. Poi si è allontanata dalla finestra e ha spento la luce, o forse è rimasta lì a guardare verso il buio, io ho proseguito per la mia strada, ma mi sono portato via con me il primo nucleo di una storia. Che non ho ancora scritto. Forse un giorno la scriverò, forse mai.