la Repubblica, 29 settembre 2019
Trump vuole togliere da Wall Street le aziende cinesi
La nuova guerra fredda rischia di estendersi a Wall Street. L’amministrazione Trump studia la possibilità di radiare dai listini delle Borse americane le società cinesi che vi sono quotate. In parallelo potrebbero entrare in vigore dei divieti di acquistare titoli in Cina per gli investitori istituzionali americani come i fondi pensione. Le misure sono state anticipate venerdì dal sito Bloomberg e hanno subito provocato dei cali nelle quotazioni delle maggiori società cinesi. Ci sono 156 imprese cinesi quotate nelle Borse americane, per una capitalizzazione complessiva di 1.200 miliardi di dollari.
Vi figurano i tre giganti dell’economia digitale Alibaba, Baidu e Tencent. Nell’elenco delle società quotate ci sono anche 11 aziende di Stato. L’offensiva che l’amministrazione Trump sta studiando viene da lontano e non è strettamente legata alla guerra dei dazi. Uno degli esponenti repubblicani che da tempo si occupa di vicende cinesi, il senatore Marco Rubio, da anni fa campagna per ridurre l’accesso di Pechino al mercato dei capitali Usa. Già sotto l’amministrazione Obama era scattato l’allarme sull’opacità dei bilanci delle aziende cinesi. La certificazione dei loro conti da parte delle società di auditing talvolta viene coperta dal segreto di Stato, soprattutto se si tratta di enti pubblici o legati al settore della difesa. Nel 2015 le filiali cinesi delle maggiori società di revisione e certificazione dei conti – Deloitte, Ernst&Young, Kpmg, Pwc – avevano patteggiato e pagato multe alla Security and Exchange Commission (l’organo di vigilanza sui mercati finanziari Usa) per aver rifiutato di fornire informazioni sui bilanci delle società cinesi quotate.
È da tempo quindi che nell’establishment finanziario americano esiste una preoccupazione sull’asimmetria delle relazioni, sulla possibilità per la Cina di usare il mercato di New York per raccogliere capitali senza sottoporsi alle regole delle concorrenti locali. La crescita della Cina in Borsa è stata spettacolare: nel 2019 ha effettuato il sorpasso sull’America per il numero di società quotate che figurano nella classifica Fortune 500: le cinesi hanno raggiunto quota 129 contro le 121 americane. Ma radiarle dai listini non sarà cosa facile, proprio in virtù di quello Stato di diritto che attira in America i capitalisti cinesi. Avranno infatti ampia facoltà di ricorso, e a decidere saranno dei tribunali indipendenti.
I capitali raccolti quotandosi nelle Borse americane possono andare a finanziare quei programmi come “Made in China 2025” con cui la Cina punta a scalzare gli Stati Uniti dal primato tecnologico. Sempre nella logica di “non finanziare il nemico”, un’altra mossa allo studio nell’amministrazione Trump bloccherebbe gli investimenti dei fondi pensione pubblici nelle aziende cinesi. Molti fondi pensione agganciano automaticamente la composizione dei loro portafogli agli indici internazionali; e il peso delle Borse cinesi è in aumento da molti anni all’interno della categoria dei paesi emergenti.
Il bollettino delle ostilità più recenti include un settore diverso dalla finanza ma collegato: il trasporto navale.
Washington ha messo in una lista nera di aziende sanzionabili tre armatori cinesi, due dei quali fanno capo alla Cosco che è la più grande compagnia di trasporti navali del mondo. La Cosco è controllata dallo Stato e da lei dipende la maggior parte dell’approvvigionamento cinese di petrolio. È anche comproprietaria di uno scalo porta-container in Liguria. Le filiali colpite dalla sanzione americana possiedono ben 50 navi petroliere. L’accusa americana è di aver violato l’embargo sulle forniture petrolifere dell’Iran. Il legame con la finanza sta nella cosiddetta “extra-territorialità” delle sanzioni americane. Qualsiasi società che abbia necessità di usare dollari – la moneta dominante nelle transazioni commerciali – viene a trovarsi nella sfera di azione dei castighi americani. Nel caso delle filiali Cosco, tutti i broker e gli intermediari di energia nel mondo intero stanno cercando sostituzioni per quelle navi, in quanto nessuno vuole trovarsi nella “lista nera”, messo al bando dai circuiti finanziari globali.