Corriere della Sera, 29 settembre 2019
Biografia di Giulio Romano
C’era anche lui quella tragica notte di Venerdì Santo del 1520 in cui morì Raffaello. Era fra gli allievi del maestro che prepararono la veglia funebre in Santa Maria Rotonda e addobbarono la statua della Madonna come una Venere classica trasformando l’altare cristiano in un tempio dedicato alla dea pagana dell’amore. E forse Giulio pianse più di tutti gli altri perché non era solo il collaboratore più capace di Raffaello, ma anche l’amico che condivideva con lui i tre pilastri dell’arte: Pulchritudo, Amor, Voluptas.
Aveva una decina di anni meno del maestro, ma Giulio Pippi (poi conosciuto come Giulio Romano nonostante la sua carriera da solista si svolse interamente a Mantova) aveva subito compreso che alla corte epicurea di Leone X, il figlio di Lorenzo de Medici, Raffaello aveva portato all’ottava più alta la filosofia neoplatonica, ovvero la conciliazione fra l’Amor coelestis e l’Amor terrestris; la fede e la ragione. E mentre tutti, scomparso Raffaello, si convertivano alla severità apocalittica di Michelangelo, Giulio prendeva armi e bagagli e, nel 1524, si trasferiva a Mantova risparmiandosi anche il tristo spettacolo dell’umiliazione di Roma ad opera dei Lanzichenecchi, i protestanti che colpirono a morte quel modo di raccontare la fede sub specie amoris attraverso le forme pagane dei Greci e dei Romani.
Non a caso Giulio partì grazie alla raccomandazione di Baldassar Castiglione, l’ambasciatore a Roma di Federico Gonzaga e l’autore de «Il libro del Cortegiano», con il quale Raffaello aveva messo a punto il canone ideale di bellezza femminile. La chiamata del figlio di Isabella d’Este tornò utile a Giulio anche per tirarsi fuori dai pasticci. I suoi disegni erotici, I Modi, ovvero Le sedici posizioni, costarono infatti l’arresto a Marcantonio Raimondi, altro amico di Raffaello, che li aveva incisi e stampati, e all’Aretino che li aveva commentati con sonetti lussuriosi. Clemente VII ne ordinò un falò, ma il Gonzaga non si scompose e anzi diede al suo scandaloso architetto-pittore carta bianca sull’intera Mantova.
Racconta Giorgio Vasari che in città nessuno poteva edificare palazzi o altre importanti architetture senza che fossero disegnate da Giulio. Il suo potere decisionale era assoluto come quando fece alzare le strade e abbattere le casupole che stavano sotto il livello del fiume esondato.
La drastica soluzione di Giulio suscitò lo scontento di molti, ma Federico fece sapere a tutti che chiunque avesse criticato il suo architetto avrebbe criticato il sovrano stesso. «Amò quel duca di maniera la virtù di Giulio, che non sapea vivere senza di lui», certifica Vasari. Il quale elenca gli innumerevoli disegni di chiese, cappelle, case, giardini, facciate che trasformarono Mantova «in modo che dove era prima sottoposta al fango e piena d’acqua brutta a certi tempi e quasi inabitabile, ell’è oggi, per industria di lui, asciutta, sana e tutta vaga e piacevole».
L’anatema
Papa Clemente VII aveva ordinato di
fare un falò con le
sue «Sedici posizioni»
L’architetto venuto da Roma si era conquistato la fiducia del Gonzaga fin dal primo progetto del Palazzo Te, sorto da alcune stalle in una prateria. All’inizio l’incarico era stato di «accomodare un poco di luogo da potervi andare e ridurvisi tal volta a desinare, o a cena per ispasso».
Ma poi ne venne fuori un edificio dedicato, a settentrione, all’elogio del piacere incardinato sulla Sala di Amore e Psiche; nel lato sud, invece, al trionfo della potenza dinastica celebrato tutt’intorno alla Sala dei Giganti. Il Palazzo Te risultò una creazione magnifica e la sua influenza si propagò nelle corti europee contribuendo alla definizione dei due temi principe della decorazione manierista: l’esaltazione dell’Amore e del Potere.
Il Serlio lo citò come «vero modello dell’architettura e della pittura del nostro tempo» e quando a Roma morì Antonio da Sangallo, che era subentrato a Raffaello nel cantiere della basilica di San Pietro, i deputati chiesero a Giulio Romano di portare a termine il lavoro. Non fece in tempo ad accettare. Giulio morì a 54 anni lasciando una figlia femmina e un maschio cui aveva dato nome Raffaello in memoria dell’amato maestro.
L’incarico della fabbrica di San Pietro andò a Michelangelo, all’epoca ormai settantenne. Il linguaggio della grandiosità risultava così vincente e ancora una volta, a causa di vite più brevi, i giovani legati alla maniera di Raffaello soccombevano.
Anche il clima politico era cambiato, con la Chiesa impegnata a combattere l’eresia di Lutero attraverso il ripristino dell’Inquisizione. Ma l’influenza di Giulio, e indirettamente quella del suo maestro d’Urbino, continuarono ad innestare grazia e sensualità nel vocabolario eroico del Manierismo grazie all’allievo Primaticcio che lavorò poi a Fontainebleau; negli amori degli dèi di Annibale Carracci a Palazzo Farnese; nel soffitto di Palazzo Barberini dipinto da Pietro da Cortona; nelle sante esangui di Guido Reni e fino alle sinuosità delle odalische di Ingres.
LE CASE GLI VENIVANO BENISSIMO
di §Edgarda Ferri
Le case. Gli venivano benissimo. Architetto geniale, pittore sontuoso e carnale, si era fatto desiderare per occuparsi della villa di Marmirolo, residenza prediletta di Federico Gonzaga. Scortato da Baldassar Castiglione, che aveva fatto da tramite fra il marchese e l’artista in fuga causa disegni porcelli condannati al rogo dal papa, Giulio Pippi arriva a Mantova il 22 ottobre 1524: 25 anni, brusco e riverito, in sintonia fulminea con il coetaneo, sregolato e colto figlio di Isabella d’Este, che immediatamente lo nomina vicario di corte, prefetto alle fabbriche gonzaghesche, supervisore di strade, ponti, monumenti, consentendogli di epurare o umiliare i pittori di corte.
Due complici: Federico, assetato di piaceri; Giulio, soprannominato il Romano, libero di rappresentare la sua idea di bellezza. Trionfo massimo dei colori e dei sensi è Palazzo Te, che il principe vuole per otio e per ispasso, dove tutto (colonne, statue, cavalli, cibo, nuvole) sembra vero e invece è dipinto. Dopo le molte case offerte da Federico, il 22 marzo 1531 Giulio firma il rogito di un palazzo in contrada dell’Unicorno, pagato mille scudi d’oro agli eredi di Ippolito degli Ippoliti.
Costruzione recente, che rifarà e dipingerà interamente «con economia di mezzi e le risorse della mia mente». Ricoperte di stucco leggero le bugne rustiche della facciata. Finestre a edicola al primo piano con cornici chiuse da un timpano in cinque nicchie circoscritte da archi. Ai piedi, una striscia in cotto finemente lavorato; sopra il portone di ingresso, il marcapiano rialzato in forma di frontone; la finestra sovrastante sostituita da una nicchia contenente la statua di Mercurio realizzata da Primaticcio completando un busto greco del dio della velocità.
Al piano terreno, cucina e stanze, la bottega degli scalpellini, gli stuccatori, i decoratori, i pittori, quella per macinare e dosare i colori, tagliare e preparare le tele, assemblare con stucco e gesso i modelli per fregi e sculture, la falegnameria per costruire e intagliare mobili, infissi e cornici, il laboratorio per le incisioni.
Una scala a tre rampe conduce al primo piano costituito da una stanza con alcova e camino, una «camera dei quadri», un salone di rappresentanza. Divisa da lesene con la base ionica e il capitello corinzio, un’alta fascia decorata con scudi e fogliame scorre sotto il soffitto. Sulla parete corta di fronte alle due finestre affacciate sulla contrada dell’Unicorno, le statue di Minerva e Mercurio. Su quella lunga, con due alte porte intagliate e dorate, Giove giovane, seminudo e splendido in una nicchia a cassettoni. Sopra la nicchia, Nettuno e Venere. Tranne un camino bianco con la cappa di stucco e coppi sulla parete in faccia a Giove, tutto è dipinto, e divino. Qui, dove ha esaltato il riposo dei sensi, Giulio si è infatti circondato soltanto dagli dei.
L’unico umano è lui, ritratto da Tiziano. Olio su tela nero su nero, bianche le punte del colletto e un lembo di camicia. E qui muore , dopo quindici giorni de febre, a 47 anni. Subito dopo, muoiono anche la moglie e i figli Raffaello e Criseide.
Dopo Cecilia, superstite, le tracce dei Pippi si perdono. Disperse anche le ossa di Giulio, sepolte nella chiesa di san Barnaba. Nel 1950 la signora Risi, ultima proprietaria, grattando con una lametta scopre che il salone è dipinto. Un restauro trova Giove, Nettuno e Venere firmati JULIUS. I padroni di casa non ammettono visite. Ci si contenti della facciata.
L’UOMO CHE AGGRAZIò IL MANIERISMO
di Alessandra Franchini
Nonostante Michelangelo cercasse di boicottarlo, alla morte di Raffaello nel 1520 Giulio Romano, all’anagrafe Giulio Pippi de’ Jannuzzi, ereditò, insieme a Giovan Francesco Penni, l’incarico affidato da Leone X per la decorazione della Sala di Costantino in Vaticano. Molto apprezzato a Roma, sua città natale, era tirato per la giacchetta anche dalla corte di Mantova.
Federico II Gonzaga lo chiamò già nel 1521 ma, impegnato com’era, l’artista lo raggiunse soltanto nel 1524. Subito molto stimato, nel 1526, un anno dopo l’avvio dei lavori di Palazzo Te, uno dei suoi capolavori, ricevette la cittadinanza di Mantova e le nomine di «vicario di corte» e «superiore delle fabbriche gonzaghesche». Tutto in città era sotto la sua soprintendenza.
Pittore, architetto, designer ante litteram, urbanista, orafo e realizzatore di cartoni di arazzi, il Pippi fu un artista a tutto tondo, capace di onorare le richieste del marchese e quelle esterne alla sua corte, disegnando in esclusiva, come aveva imparato dal Sanzio, tutti i progetti grafici, realizzati poi dai suoi garzoni.
«Con nuova e stravagante maniera». Giulio Romano a Mantova è la mostra, a Palazzo Ducale (dal 6 ottobre 2019 al 6 gennaio 2020) che la città disseminata di testimonianze del suo talento, dedica al più celebre allievo ed erede di Raffaello e maestro del Manierismo.
Il progetto
In mostra anche dipinti e arazzi. E fino ai primi di novembre ci saranno aperture straordinarie
L’esposizione, nata dalla collaborazione tra il Complesso Museale Palazzo Ducale di Mantova e il Musée du Louvre di Parigi, illustra il suo modo innovativo di fare arte proprio attraverso il disegno. «Era prima di tutto un bravissimo disegnatore ed è proprio grazie ai 72 fogli prestati dal Louvre, dove si trova il più importante fondo sull’artista, che possiamo ripercorrerne tutta la carriera, illustrata anche attraverso dipinti e arazzi — spiega Laura Angelucci, curatrice della mostra insieme con Peter Assmann, Paolo Bertelli, Roberta Serra e con la collaborazione di Michela Zurla —. Dall’impegno in Vaticano, con due fogli relativi a un decoro di una delle pareti della Sala di Costantino, uno del Louvre e l’altro conservato a Stoccolma, ai disegni per le decorazioni di Palazzo Te che si potranno confrontare con le opere permanenti».
Realizzata con il patrocinio di Mantova Città d’Arte e Cultura, l’esposizione è un’immersione nella vita dell’artista resa possibile anche da un’ ulteriore selezione proveniente da altre importanti collezioni museali italiane e straniere e da ricostruzioni in 3D di oggetti e ambienti, accompagnati da confronti fra disegni-progetti e opere finite.
Un allestimento patrocinato da Mantova Città d’Arte e Cultura in partnership con Intesa Sanpaolo che ha il supporto di Finservice: «Abbiamo deciso di sostenere la mostra per contribuire allo sviluppo del territorio, con l’intento preciso di ampliare l’affluenza e le possibilità di partecipazione del pubblico, attraverso le straordinarie aperture serali — afferma l’Ad Guido Rovesta in riferimento all’orario prolungato di due ore da domenica 6 ottobre a sabato 2 novembre (ingresso fino alle 21.15 anziché fino alle 19.15, ndr) —. Desideriamo contribuire alla crescita e all’occupazione. Un impegno che sentiamo profondamente nostro e che siamo orgogliosi di accogliere grazie a questa prestigiosa iniziativa di richiamo internazionale».
«È una passeggiata molto ricca — sottolinea ancora Angelucci — lungo quasi duemila metri quadrati di tre diverse ali del Palazzo, che permette di confrontare decori e stucchi con i progetti e con le opere eseguite dai collaboratori», oltre a sottolineare l’apporto dell’artista all’elaborazione del linguaggio manierista e a indagare il Giulio Romano architetto e la sua eredità, attraverso le opere di allievi come Fermo Ghisoni, Lorenzo Costa e Giovanni Battista Bertani.