Corriere della Sera, 29 settembre 2019
Biogrrafia di Mario Amato
Robert Doisneau, il fotografo del bacio nella Parigi del dopoguerra, diceva del suo lavoro: «Il mondo che cercavo di far vedere era un mondo dove stavo bene, dove la gente era gentile e dove trovavo la tenerezza di cui avevo bisogno. Le mie fotografie volevano dimostrare che un mondo del genere poteva esistere».
Robert Capa, grande fotografo di guerra morto su una mina in Vietnam, diceva del suo lavoro: «La guerra è come un’attrice che invecchia. È sempre meno fotogenica e sempre più pericolosa».
Non so invece chi sia l’autore della fotografia della quale stiamo per parlare. Forse uno di quei meravigliosi professionisti d’agenzia che accorrono, cuore in gola, a fotografare il dolore degli altri.
Quella mattina del 23 giugno del 1980 qualcuno gli deve aver telefonato a casa, era presto, e non esistevano i cellulari. Gli deve aver detto di andare di corsa a Viale Jonio, più precisamente a Via Monte Rocchetta. Gli avrà detto, il giornalista di turno in questura, «hanno ammazzato qualcuno».
Durante quegli anni orrendi ci sono stati centinaia di «qualcuno». Erano poliziotti, carabinieri, finanzieri, uomini della polizia penitenziaria, giornalisti, politici, imprenditori, sindacalisti. Pioveva sempre, in quegli anni, e la pioggia cancellava i segni col gesso che delimitavano le strane posizioni che assume un corpo morto.
E poi tanti magistrati. Tanti. In quei primi mesi del 1980 sono caduti, sotto il fuoco del terrorismo rosso, Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini e Guido Galli. Li hanno uccisi in tre giorni di fuoco, quelli tra il sedici marzo e il diciannove marzo. A febbraio era toccato a Vittorio Bachelet.
Quando il fotografo arriva vede la scena solita. Un corpo a terra, un lenzuolo pietosamente disposto per coprirne la vista, come se la vittima e non già gli assassini fossero un orrore, i curiosi, il confabulare delle autorità «prontamente accorse».
Poi lo sguardo del fotografo scorge un particolare. Ad altri sarebbe sfuggito. Lui, dentro il mirino della sua Nikon o Canon, ha visto decine di scene così. Diverse e uguali. Ma i particolari, che spesso gli investigatori ignorano, a lui sembrano decisivi.
Così i suoi occhi, aiutati dal teleobiettivo, si fissano su una scarpa, la sinistra, che spunta dal lenzuolo. Sulla punta c’è un buco. Un buco, come nelle descrizioni di Dickens o nei fumetti di Pippo. Forrest Gump diceva: «Mia mamma mi ha insegnato che dalle scarpe di una persona si capiscono tante cose: dove va, cosa fa, dove è stata».
Quel buco nelle scarpe mi è rimasto nella memoria in tutti questi anni. Mi sembrava raccontasse molto dell’austera figura di un magistrato. Di questo magistrato. Mi sembrava dicesse «dove va, cosa fa, dove è stata».
Un terrorista nero, Ciavardini, per non essere da meno dei colleghi rossi, aveva atteso Mario Amato, il proprietario di quelle scarpe bucate, alla fermata dell’autobus, gli aveva puntato la pistola alla nuca e poi aveva premuto il grilletto. Un altro, Cavallini, lo aspettava su una moto.
Alla fermata dell’autobus. Tre mesi dopo la mattanza dei magistrati il titolare delle inchieste sui terroristi neri viaggiava in autobus. Non poteva disporre della macchina di servizio, ovviamente non blindata, perché l’autista prendeva servizio alle nove e dunque non sarebbe stato in ufficio prima delle dieci. Lui invece voleva essere presto al lavoro.
Per questo uscì di casa e fece pochi passi, per prendere l’autobus 319.
Non aveva l’auto blindata anche perché, come aveva detto in audizione al Csm poco prima di essere ucciso: «C’era una sola macchina blindata. Ritenevo più opportuno lasciarla disponibile per i colleghi che si occupano del terrorismo rosso e svolgono un’attività di gran lunga più rischiosa di quella che svolgo io».
Quel buco, quella palina di un autobus dicono molto, ma non tutto. Dicono di un uomo attaccato al lavoro, vissuto come una missione, dicono di chi non vuole perdere tempo, né occupandosi delle suole di una scarpa logora né aspettando una macchina pigra.
Mario Amato era il magistrato che, nella Roma della fine degli anni Settanta, indagava sul terrorismo nero. Era solo. Era solo lui a farlo. Come solo era stato, prima di lui, Vittorio Occorsio.
Non aveva un pool, qualcuno che lo aiutasse. I suoi colleghi a Roma, in Procura, dopo la mattanza di metà marzo si erano riuniti in assemblea permanente, cosa inedita e segno della tensione crescente. Amato quattro giorni dopo sale le scale del Csm e parla alla prima commissione referente.
Ascoltiamolo, questo racconto di una paurosa solitudine.
«Sono stato lasciato completamente solo a fare questo lavoro, per un anno e mezzo. Nessuno mi ha mai chiesto cosa stesse succedendo. Solo una volta sono stato chiamato dal procuratore capo a proposito del nominativo di un collega trovato nell’agenda di un professore arrestato.
Recentemente ho molto insistito per avere un aiuto sia perché sono stato bersagliato da accuse e denunce in quanto vengo visto come la persona che vuole “creare” il terrorismo nero, sia perché le personalizzazioni tornano a discapito dello stesso ufficio. Affiancandomi dei colleghi sarebbe possibile, infatti, sia ridurre i rischi propri della personalizzazione dei processi, sia darmi un conforto in quanto, se dei colleghi giungessero a conclusioni analoghe alle mie, sarebbe evidente che le stesse non sarebbero frutto della mia asserita faziosità. Oltre a tali motivazioni vi è, poi, anche quella che non ce la faccio più da solo perché è un lavoro massacrante che comporta la necessità di tenere a mente centinaia di nomi e centinaia di dati, il che è impossibile per una persona sola. Nonostante, peraltro, le più reiterate e motivate richieste di aiuto, a tutt’oggi, tale aiuto non mi è stato dato».
Oggi Giovanni Canzio, presidente emerito della Cassazione e magistrato che si occupava di terrorismo a Rieti, mi dice: «Mario era isolato. Fu lasciato solo. Sapeva di essere minacciato, le indagini sul terrorismo nero erano molto pericolose». E aggiunge: «Quando fu ucciso io provai un grande dolore, ma non fui sorpreso. Noi avevamo la sensazione di non avere dalla nostra parte l’intero Stato. C’era chi remava contro. E chi toccava quei fili rischiava».
Il figlio di Amato, Sergio, che aveva sei anni quel giorno, ha pochi ricordi: il padre che suona il violino della sorella di sei anni più grande di lui; un’immagine di Cristina, talmente innamorata del papà che, quando lo sentiva tornare, gli preparava le pantofole davanti alla porta.
Sergio mi racconta che ha passato la sua giovinezza a cercare ovunque le ragioni dell’accaduto. Nei libri di storia, per capire un fenomeno che non ha vissuto e in quelli di filosofia per comprendere come possa, un essere umano, arrivare alla ferocia disumana di un assassinio a freddo o di una strage.
L’una e l’altra, di esseri innocenti.
Sergio va spesso a Bologna dove si tiene un processo sulla strage del due agosto. È soddisfatto perché il tribunale ha chiesto al Csm le trascrizioni delle due udienze di Mario Amato. Sente che un filo lega quelle due vicende. Sergio mi dice che sua madre non gli ha insegnato l’odio, neanche nei confronti degli assassini che gli hanno tolto quel padre insieme al quale avrebbe potuto fare tante cose.
Personalmente credo che l’omicidio di Amato non fosse un mero atto dimostrativo. D’altra parte nella rivendicazione i Nar sono espliciti: «Abbiamo eseguito la sentenza di morte contro il sostituto procuratore dottor Amato, per la cui mano passavano tutti i processi a carico dei camerati. Oggi egli ha chiuso la sua squallida esistenza imbottito di piombo. Altri la pagheranno».
Valerio Fioravanti dirà: «Noi scegliemmo Amato come simbolo dello Stato per addivenire ad una rottura con quelle forze dello Stato stesso a cui eravamo “simpatici”, fino a quel momento, poiché ci consideravano “figli della borghesia” lasciandoci “fare” e scorrazzare liberamente per tutta Roma».
Amato non viene ucciso solamente per impaurire. Con Amato i Nar mandano un segnale allo Stato e, allo stesso tempo, uccidono chi stava collegando i fili del rapporto tra terrorismo nero e pezzi di potere. Si spegne, con quel colpo alla nuca, la più potente banca dati di contrasto all’eversione nera. Quel cervello conteneva un’immensa quantità di informazioni, deduzioni, collegamenti che volano via. Un’esecuzione chirurgica, nei suoi effetti.
Aveva detto, in quell’audizione: «Come esempio posso citare la famosa “banca dati” che tutti coloro che si occupano di terrorismo dicono da anni che è indispensabile. Ebbene, non se ne è mai fatto niente».
Amato stava unendo i puntini, stava costruendo, dell’analisi del fenomeno, una visione sistemica.
Il suo amico di sempre Paolo Cenni mi dice: «Negli ultimi quindici giorni Mario aveva cominciato ad organizzare una sua banca dati, richiamando fascicoli di inchieste che avevano invisibili collegamenti. Mi disse: “Quando vado in udienza mi accorgo che vengo osservato. Vogliono capire quanto ho capito, quanto so”. Attorno a lui c’era un brutto clima. Fui avvicinato dal giudice Alibrandi, suo collega, che mi sibilò minaccioso: “Dì al tuo amico che qui a Roma non si scherza, quelli si incazzano davvero”».
Amato stesso dirà, poco prima di morire, «sto arrivando alla visione di una verità d’assieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle degli stessi esecutori materiali degli attentati».
Amato, prima dell’assassinio, è assediato. Giovanni Canzio racconta che andava a casa sua con dei pesantissimi fardelli di bobine che voleva ascoltare personalmente: «Non mi fido, possono non trascriverle per intero». Sergio lo ricorda nel suo studio in casa, con delle gigantesche cuffie sulle orecchie mentre ascolta le intercettazioni.
Amato è braccato. Un detenuto, un confidente, tal Marco Mario Massimi, al termine di un interrogatorio, gli aveva detto solo quattro parole, affilate come una lama: «Lei, dottore, la cercano».
Un funzionario di polizia, come riporta il bel libro di Achille Melchionda Piombo contro la giustizia, aveva scritto, nella sua relazione di servizio, di avere a sua volta interrogato lo stesso pregiudicato. E chiudeva il rapporto così: «Il Massimi ha concluso indicando il dottor Amato come uno dei maggiori obiettivi del terrorismo di destra che, peraltro, potrebbe portare a termine, entro breve tempo, attentati in danno di poliziotti».
Quindi sapevano.
E lo hanno lasciato solo, alla fermata del 319.
Amato torna al Csm, stessa commissione, dieci giorni prima di essere ucciso. Racconta di un esposto presentato da avvocati contro di lui nel quale si diceva, testualmente: «Segnaliamo alla S.V. se non sia il caso che il dottor Amato venga invitato ad astenersi a causa della sua conclamata militanza politica che è in netto contrasto con le idee professate da tutti gli inquisiti nelle varie istruttorie da lui condotte. Ci sembra inoltre molto strano che indagini di elementi appartenenti alla destra politica vengano sempre affidate, almeno negli ultimi tempi, al predetto magistrato».
Il procuratore capo De Matteo, al quale l’esposto era indirizzato, non gli aveva detto nulla, se non che c’era una «cosa» che lo riguardava e, soprattutto, non lo aveva difeso pubblicamente.
Amato non voleva essere solo, voleva aiuto. Voleva essere affiancato. Dice, con drammaticità in audizione: «Ricordo, a tal proposito, una riunione piuttosto spiacevole in cui il Capo disse che “il mio problema“(era infatti divenuto il “mio” problema) era risolto perché vi erano due volontari senza, peraltro, farne il nome. Il collega Nicolò Amato domandò, allora, se si poteva sapere chi fossero tali due colleghi, al che il procuratore fece i nominativi di due colleghi che subito si alzarono protestando che loro “volontari non erano” e che, anzi, avevano manifestato una idea contraria. Uno dei due, successivamente, mi spiegò anche i motivi di tale sua reazione e cioè che lui vive in un quartiere in cui il Msi è particolarmente attivo ed aveva addirittura la sezione di detto partito sotto casa. Tale situazione mi mise ovviamente in imbarazzo in quanto sembrava, quasi, che si trattasse di un mio problema personale».
Poco prima di essere ucciso gli vengono finalmente affiancati due magistrati. Uno di loro, il dottor Giordano, dice oggi: «Non avevamo uomini operativi. I carabinieri ci diedero solo un capitano. Sica ci disse che c’era il rischio che a Roma i terroristi uccidessero un magistrato. Ma ci disse “colpiranno l’ultimo della fila”. Non poteva essere Amato. Lui era stato minacciato in vari modi. Mario aveva preso un’arma come, dopo il suo assassinio, facemmo tutti noi. Eravamo arrivati tutti a Roma per dare una mano. Dopo l’omicidio Occorsio c’era stato il fuggi fuggi. Sentivamo il nostro lavoro come un dovere civile».
Amato si interrogava sul fenomeno che stava investigando. Usava la ragione, non solo la legge. Disse in quella audizione: «Vi sono un sacco di ragazzi o addirittura ragazzini che sono come i miei o i vostri figli, o come i figli di persone assolutamente per bene e che vengono armati o comunque istigati ad armarsi e che poi ci troviamo che ammazzano. Ne troviamo con armi, con silenziatori o colti nel momento in cui stanno ammazzando. Si tratta, quindi, di un fenomeno grave anche sotto questo profilo che non può essere trascurato perché il problema non si può risolvere prendendo i ragazzini e mettendoli in galera, o meglio mettiamoli pure in galera, ma teniamo presente che il gravissimo danno sociale di questa massa di giovani che vengono travolti da vicende di questo tipo».
E poi aggiungeva: «Sono tutte questioni che da troppo tempo sto “macerando” e che mi hanno messo in difficoltà e, non vi nascondo, mi hanno traumatizzato perché io pensavo, venendo a Roma, di trovare un Ufficio dove avrei imparato».
Veniva da Rovereto. Dove lui, palermitano, era stato felice con sua moglie e dove diventerà sostituto procuratore della Repubblica.
Era un grande magistrato. Vissuto in quegli anni folli. A cercare di debellare con la sua testa, insieme ad altri coraggiosi servitori dello Stato, chi voleva instaurare una dittatura nella quale, a chi non la pensava come il presunto vincitore, veniva assicurata morte certa. Quegli anni orrendi, che solo chi non ha vissuto può rimpiangere, li dobbiamo ricordare senza distinzioni. Non esistevano assassinî o stragi più giustificabili di altre.
Sono morti ragazzi solo perché erano di destra, altri solo perché erano di sinistra. Sono morti magistrati che applicavano la legge, giornalisti che raccontavano ciò che vedevano, politici che testimoniavano le loro idee, ragazzi in divisa perché facevano il loro dovere.
La storia professionale di Mario Amato inizia il 15 giugno del 1970. Così ne parla la scheda del Csm a lui dedicata: «Presso il Tribunale ordinario di Roma, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica; il rappresentante dell’ufficio del Pubblico ministero è, in quel momento, Antonino Scopelliti».
Quel giorno, per quel giuramento al quale ciascuno resterà fedele, ci sono due prossimi «qualcuno». Uno, Amato, sarà ucciso dal terrorismo nero. L’altro, Scopelliti, il 9 agosto del 1991, verrà assassinato su ordine dei capi della mafia. Anche per lui un colpo alla testa.
La testa, il cervello, gli studi raccolti in una borsa, come quelli di Massimo d’Antona, ucciso dalle Br.
Di fronte al piombo la testa è fragile, indifesa. Specie se è condannata alla solitudine.
Come quella di Mario Amato.
Scarpe bucate e coscienza pulita.