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WASHINGTON James Comey, ex direttore dell’Fbi, racconta nel suo libro di memorie («A Higher Loyalty») che il posto più pericoloso nella New York degli anni Ottanta era lo spazio che separava Rudy Giuliani dal microfono per le conferenze stampa. L’allora procuratore del Southern District di Manhattan si beava sotto la luce dei riflettori. E i suoi numerosi detrattori, equamente distribuiti tra repubblicani e democratici, sostengono ancora oggi che la sua popolarità e il suo successo siano dipesi in gran parte dalla sua capacità di abbindolare i media, attribuendosi il merito esclusivo delle inchieste contro i boss della mafia e i truffatori di Wall Street. La fama e la visibilità di Rudy diventarono mondiali, da sindaco dell’11 Settembre. Può stupire allora scoprire in questi giorni il Giuliani settantacinquenne che trama nell’ombra, in un territorio lontano come l’Ucraina, con personaggi sconosciuti all’opinione pubblica americana. Rudolph William Louis Giuliani, nato a Brooklyn, nonni italiani, padre implicato nel gioco d’azzardo clandestino, si è laureato al Manhattan College e poi alla Law School della New York University. Per anni ha messo l’ambizione politica sopra ogni cosa, puntando al massimo. Si è candidato alle primarie repubblicane nel 2008; ha sperato fino all’ultimo di diventare Segretario di Stato con Trump nel 2016. Poi ha dovuto arrendersi e si è adattato al ruolo del consigliere, del manovratore, coltivando, nello stesso tempo, l’altra sua grande passione: fare soldi. Nel 2002 fonda la «Giuliani Partners», la piattaforma delle sue numerose consulenze. Gradualmente esce dalla galleria dei potenziali statisti ed entra nell’albo, decisamente più affollato, dei faccendieri. Come altri sodali di Trump, fra tutti Roger Stone e Paul Manafort, anche Giuliani intuisce che i business più promettenti vanno cercati nei Paesi dalla dubbia reputazione. Uno di questi è l’Ucraina, dominata dagli oligarchi e umiliata da una corruzione capillare. L’ex teorico della «tolleranza zero» allaccia rapporti trasversali, promuovendo affari con i potentati fedeli a Kiev e con quelli apertamente filorussi, come Pavel Fuks, costruttore e immobiliarista di Kharkiv, la seconda città del Paese. Fuks, si legge nel Rapporto del super procuratore Robert Mueller, è l’intermediario che ha trattato con Trump dal 2004 al 2010 per la costruzione di un grande albergo a Mosca. Un’amicizia continuata negli anni, visto che il businessman ucraino fu invitato all’inaugurazione del presidente americano nel gennaio 2017 (e anche su questo ha indagato Mueller). Ma sono eccellenti anche le relazioni con Kiev. Giuliani incontra spesso Petro Poroshenko, presidente ucraino fino allo scorso aprile, e il magnate dei metalli, Victor Pkinchuk che nel 2016 versa un contributo di 150 mila dollari alla Trump Foundation. Pur impegnato in seminari, convegni e altri eventi in Ucraina, tutte occasioni per fare il pieno di incarichi a favore della sua società specializzata in «sicurezza», Giuliani non perde mai di vista gli interessi del cliente che siede nello Studio Ovale. Nel rapporto compilato dall’agente della Cia, all’origine dell’impeachment di Trump, è scritto che fin dal gennaio scorso Rudy aveva individuato una pista per incastrare Hunter Biden, figlio dell’ex vicepresidente democratico Joe Biden, in corsa per la nomination nelle presidenziali del 2020. La sua fonte era il procuratore generale dell’Ucraina, Yuriy Letsenko, una figura non esattamente «law and order» visto che era stato condannato per corruzione nel 2010 e che fu tirato fuori di galera dall’allora presidente filorusso Viktor Yanukovich.
ANNA LOMBARDI SU REPUBBLICA
NEW YORK — «Sono un eroe». Rudy Giuliani, l’avvocato di Donald Trump citato 31 volte nella denuncia dello 007 che sta facendo tremare la Casa Bianca, spara l’ennesima bordata attraverso il suo bazooka preferito, il piccolo schermo: «Sono io il vero informatore. Ho svelato la corruzione dei Biden su richiesta del Dipartimento di Stato. Ecco le prove, gli sms dell’inviato speciale in Ucraina Kurt Volker», dice mostrando i messaggi in diretta tv. La conduttrice di Fox , Laura Ingraham, è allibita: «Si rende conto che sta facendo inutilmente il suo nome? ». Poche ore dopo, quella di Volker è la prima testa a cadere nell’ambito dello scandalo che ha spinto i democratici a chiedere l’avvio della procedura d’impeachment nei confronti di President Trump. È lui il responsabile dell’incontro in Spagna fra Giuliani e Andrij Yermek, il consigliere del leader ucraino Volodimir Zelenskij, avvenuto poco dopo la telefonata di Trump per chiedere al suo omologo di riprendere le indagini sull’industria del gas dove lavorava Hunter Biden, figlio del rivale politico Joe, convinto che questi avesse fatto pressioni per mandar via il procuratore generale responsabile dell’inchiesta, Jurij Lutsenko.
Certo, la gestione di missioni diplomatiche non fa parte delle mansioni di un avvocato privato, sia pure quello del presidente Usa. Ma come Michael Cohen prima di lui, incaricato di mettere a posto gli affari sporchi di Trump pagandone le amanti e mettendo a tacere i nemici, anche Giuliani in un certo senso è un factotum: sul palcoscenico internazionale. A inizio presidenza, The Donald lo voleva addirittura segretario di Stato. Grazie a quella reputazione di esperto di sicurezza nazionale basata, in realtà, solo sulla sua presenza sul campo, l’11 settembre 2001. Una presenza, quella dell’allora sindaco di New York, che bastò a farne un’icona della lotta al terrorismo: addirittura "uomo dell’anno" sulla copertina di Time .
Rudolph Giuliani, 75 anni, italiano di terza generazione (il nonno era di Marliana, Pistoia) nato a Brooklyn e cresciuto nella casa da gioco clandestino del padre, sull’immagine ha costruito l’intera carriera, usando abilmente le telecamere. Fin da quando, nominato da Ronald Reagan procuratore federale di New York si occupa di lotta alla droga e crimine organizzato, collaborando perfino con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nelle inchieste sulla famiglia mafiosa americana dei Gambino. La fama di procuratore di ferro nasce così: mettendo in rilievo ogni arresto fa sfilare gli accusati in manette, davanti alla stampa. Nel 1989 si candida per la prima volta a sindaco di New York. Va male: vince l’afroamericano liberal David Dinkins. E Giuliani gli dichiara guerra, sfruttando il tentativo del sindaco nero di riformare il violento e corrotto corpo di polizia. Il 16 settembre 1992 è proprio lui a guidare la rivolta degli agenti in borghese sul ponte di Brooklyn. Una scena descritta su Newsday dal premio Pulitzer Jimmy Breslin: «10 mila manifestanti ubriachi e armati camminavano sulle auto terrorizzando i conducenti, Giuliani col megafono in testa: "Vi piace un negro alla guida della città?"». Un anno dopo è sindaco. Eletto di misura, grazie al voto bianco di Queens e Long Island. In realtà la città "ingovernabile" sta già cambiando. Il crimine in declino grazie al predecessore. Ma il primo cittadino se ne assegna il merito, emanando le leggi della "tolleranza zero" contro spacciatori, graffitisti e senzatetto. "Lo sceriffo" si proclama paladino dei bianchi, sempre dalla parte della polizia. Sotto il suo regno l’haitiano Abner Louima, arrestato fuori da un nightclub, è picchiato e abusato sessualmente dagli agenti. E Amadou Diallo vien ucciso con 41 colpi mentre mette la mano in tasca per estrarne la patente. Ma quando Bruce Springseen gli dedica una canzone, American Skin, 41 shots, Giuliani se ne lamenta: «C’è chi prova a far passare la polizia per colpevole». È l’11 settembre a farne il sindaco d’America. La sua fama è in declino, di lui si parla per la guerra al Brooklyn Museum colpevole di aver inaugurato la mostra Young British Artists con gli animali squartati di Damien Hirst. L’attacco alle torri cambia tutto. Il mandato finisce a dicembre, ma ormai è ospite fisso dei talk show, superstar della lotta al terrorismo. Nel 2008 tenta la sfida presidenziale: ma si ritira dopo lo scandalo dei viaggi agli Hamptons pagati con soldi pubblici per andare a trovare l’amante Judith Nathan, insieme al lavoro di lobby del suo studio, Bracewell & Giuliani, con paesi africani non esattamente democratici.
È Donald Trump a strapparlo, nel 2016, dall’oblio della pensione. Lo sceriffo gli piace e la sua fama gli serve in campagna elettorale. Nonostante gli exploit televisivi che stanno facendo venire il mal di pancia a mezzo partito repubblicano, The Donald è ancora dalla sua parte. «Testimonierò al Congresso», dice ora Giuliani. Ma poi aggiunge: «Solo se Trump mi permetterà di rompere il vincolo di segretezza fra avvocato e cliente». Leale al suo presidente, si sente davvero un eroe.