Corriere della Sera, 29 settembre 2019
Che succede nel M5s
ROMA All’inizio era tutta una scampagnata, un aprire scatolette di tonno, occupare tetti e srotolare striscioni davanti a piazza Montecitorio. L’euforia iniziale ha ben presto dovuto fare i conti con la realtà: il Palazzo, le lusinghe, i compromessi, i litigi. E quello che sembrava un corpo solo, rivoluzionario e unito, ha cambiato forma e perso pezzi. Nella prima legislatura, su 141 parlamentari, tra espulsi e fuoriusciti, se ne sono smarriti 40: quasi un terzo. Nell’ultima, già 15 tra deputati e senatori, volenti o nolenti, hanno cambiato gruppo (oltre ad Andrea Mura, che si è dimesso).
L’idea liquida di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, trasfusa in realtà politica, è arrivata al governo, anzi ai governi. Perdendo pezzi e cambiando il suo dna. Luigi Di Maio da mesi le prova tutte per tenere compatto il gruppo: regole draconiane, sanzioni, risarcimenti stellari e l’arma finale, il vincolo di mandato. Ma la fragilità M5S rientra nelle regole del gioco o è una debolezza costitutiva? Paola Nugnes, tra le ultime espulse, la vede così: «Nel disegno di Di Maio il Parlamento è inutile e i senatori sono pigiabottoni». I «cambi di casacca» non sono un’aberrazione della democrazia? «No – risponde Nugnes —. Abbiamo fatto campagna per l’acqua pubblica, la chiusura dell’Ilva e lo stop a Tap, Tav, e condoni. E poi? A un certo punto devi decidere se restare fedele al programma, e a te stesso, o a un capo». Nugnes usa una metafora: «Di Maio comprime, stringe, soffoca. Ma se si irrigidisce una struttura, non è più in grado di rispondere con elasticità alle sollecitazioni: si fessura e crolla». Il Movimento è verticistico (prima Grillo e Casaleggio, poi anche Di Maio) e democraticista (con Rousseau). Schiacciati tra un «alto» troppo stretto e un «basso» troppo largo, ci sono i parlamentari-«portavoce». Spiega Gregorio De Falco: «Comanda il principe assoluto. Eppure ha perso sei milioni di voti: dovrebbe essere espulso. Nel gruppo ci si dovrebbe confrontare e poi decidere. Invece si mandano via le persone». I fuoriusciti lamentano una mancanza di democrazia. Decisioni prese dall’alto, richieste di fedeltà al capo, poca disponibilità al dialogo. Non ci si fida. Ogni deviazione dalla linea è vista con sospetto. Alla fine del 2018, diventa paranoia. Si introduce il sistema della segnalazione: chiunque può evidenziare violazioni di statuto e codice etico. Su Rousseau arrivano 1.822 «delazioni». Partono 274 processi. Il blog ne parla il 30 giugno 2019, poi più nulla. Se le regole diventano rigide, la loro applicazione è opaca e discrezionale. La multa da 100 mila euro per chi cambia gruppo resta lettera morta. Ci sono parlamentari sotto processo da mesi senza che se ne sappia nulla (vedi Giulia Sarti ed Elena Fattori).
I «dissidenti» reclamano spazi. Saverio De Bonis, espulso a fine 2018, spiega: «Di Maio si è chiuso nel bunker con i fedelissimi. Gli altri devono sottostare al vaglio obbligatorio della comunicazione». La vera democrazia, aggiunge, «dovrebbe passare anche per una leadership eleggibile e scalabile». Meno critico Maurizio Buccarella, espulso per «rimborsopoli»: «Il Movimento non è peggiore dei partiti tradizionali e alcuni malumori sono dettati da aspettative personali. I 5 Stelle sono alternativi alla vecchia politica: a volte si esagera solo per reagire all’accerchiamento». Andrea Cecconi descrive un altro clima: «Molti, per timore di sanzioni, stanno zitti e covano malumore». È il prezzo pagato alla guerra fatta sin dall’inizio alle vecchie «correnti»? «Fu una battaglia giusta – spiega Nugnes – perché si volevano combattere personalismi e interessi particolari. Di certo non si voleva venerare il pensiero unico». Passaggio nodale, il depotenziamento dei meet up. «Dove sono finiti?», si chiede De Bonis. «Cancellati perché davano fastidio», risponde Nugnes: «All’inizio servivano perché si doveva raccattare lo scontento da sinistra e da destra, con slogan generici. Ogni meet up declinava i temi a modo suo. Ma poi sono diventati centri di potere autonomo che davano fastidio».
Come i «dissidenti» attuali, che l’altro giorno hanno scatenato una mezza rivolta in Senato. Di Maio, oltre a minacce e sanzioni, prova ora con la carta della riorganizzazione. Basteranno i dodici «facilitatori» e i referenti regionali per tenere compatto il gruppo?